Dopo Arafat

Se effettivamente si terranno elezioni il prossimo gennaio, i palestinesi avranno loccasione di scegliere per la prima volta senza l'ingombrante rais

M. Paganoni per Nes n. 9, anno 16 - novembre 2004

image_447“Se n’è andato così com’era vissuto, nel caos e nella confusione, immerso in una fitta nebbia di menzogne, di mezze verità e nell’ostinato rifiuto di guardare in faccia la realtà”. Così Yediot Aharonot (11.11.04) ha dato voce a un diffuso sentimento in Israele: “Arafat non è morto da eroe, non se n’è andato in un vortice di fuoco e fiamme. È rimasto inchiodato a un letto tra la vita e la morte mentre tutt’attorno i fumi di uno scontro inverecondo fra la moglie e i dirigenti palestinesi rischiavano di distruggere quel poco che restava di dignità personale e nazionale. Arafat non lascia dietro di sé alcun retaggio spirituale o politico. Lascia solo terra bruciata. La sua morte non produrrà il caos nella società palestinese, anzi: una volta superato lo shock, sarà più facile che prevalgano normalizzazione e stabilità”.
Per anni è stato ripetuto che Arafat rappresentava comunque un elemento di equilibrio e di moderazione, che dopo Arafat “c’è solo Hamas”. Sembra invece che, nonostante la difficoltà di inaugurare una procedura inedita, in un sistema non avvezzo ai meccanismi dell’avvicendamento democratico, la società politica palestinese si sia rimessa in moto: sotto l’ombrello (un po’ sovietico, un po’ clientelare) della struttura Olp, vera ossatura dell’Autorità Palestinese, si cerca di ridistribuire, possibilmente senza spargimenti di sangue, i poteri che erano concentranti nelle mani del “padrino” e di far funzionare la legge sulla successione della presidenza. Se effettivamente si terranno elezioni il prossimo gennaio (in significativa coincidenza con quelle irachene), l’elettorato palestinese avrà l’occasione di operare per la prima volta a una scelta politica senza l’ingombrante presenza del rais.
Chi aveva sospettato che attorno ad Arafat si fosse coagulato un blocco di potere autocratico e tribale, retto sulla deferenza, sul ricatto e sulla corruzione, ne ha trovato grafica conferma nelle modalità, e tratti surreali, del suo trapasso. Chi aveva indicato nella sua inamovibilità un freno politico e psicologico all’evoluzione della stessa società palestinese e del possibile dialogo con Israele, trova le prime conferme nel vento nuovo che ha iniziato a spirare in campo palestinese, israeliano e internazionale ancor prima che di Arafat venisse decretato il decesso ufficiale.
Al di là del lutto formale, e senza nemmeno attendere che la cerimonia funebre fosse terminata, è stato un profluvio di fiduciose dichiarazioni di politici, diplomatici e commentatori sulla “nuova era che si apre”, sulle “nuove opportunità” per la pace fra Israele e i suoi vicini. Cosa in sé positiva, soprattutto quando proviene da settori significativi del mondo arabo e palestinese.
In questo clima un po’ esaltato, tuttavia, occorre tenere desta l’attenzione. Spesso alcune espressioni vengono usate come parole in codice. “Gli Stati Uniti devono tornare a impegnarsi in Medio Oriente” sta per “devono fare pressioni su Israele”. “Bisogna applicare la Road Map” significa “creare uno stato palestinese senza tanto badare alle sue qualità e alle garanzie anti-terrorismo”.
Bene hanno fatto Tony Blair e George W. Bush, nel giorno stesso dei funerali di Arafat, a chiarire in una conferenza stampa a Washington che al centro della irrepetibile occasione di pace che sembra presentarsi resta la questione della democrazia. Cioè: istituzioni democratiche per arabi e palestinesi e lotta senza quartiere al terrorismo stragista e totalitario. Che in fondo sono i prerequisiti indicati anche dalla Road Map. “Dal desiderio dei palestinesi di costruire una democrazia – ha detto Bush – e dalla disponibilità delle nazioni libere di aiutarli in questa impresa dipende la possibilità di costruire in pochi anni uno stato palestinese indipendente, pacifico, vitale e democratico accanto a Israele”.
Il Medio Oriente ci ha insegnato a non indulgere mai troppo all’ottimismo. I nodi sono ancora tutti sul tappeto, e non mancano soggetti superoltranzisti che hanno interesse a minare qualunque reale apertura, sia in campo palestinese (i jihadisti e le varie bande armate mezzo politiche e mezzo criminali, ma anche il vecchio compagno d’armi di Arafat, Farouk Kaddoumi, che ha già messo le mani sul Fatah), sia in campo regionale (dall’Iran, agli Hezbollah, alla Siria, ad Al-Qaeda). “Nel dopo Arafat – rifletteva l’abituale israeliano seduto davanti a giornale e televisore in una vignetta di Yaakov Kirschen sul Jerusalem Post – la domanda sarà se l’Olp abbandonerà finalmente la sua campagna di odio contro Israele”. In quel momento la tv dice: “Alti esponenti palestinesi accusano Israele d’aver avvelenato Arafat”. “Ecco la risposta”, sospira l’omino.

Vedi anche il seguente articolo e i link successivi:
Rivelazioni: con Oslo Arafat contava di far fuggire gli ebrei

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