Dopo Olmert, il piano Olmert

La soluzione due popoli-due stati, sulla carta, è già stata scritta più volte, anche nei dettagli. Ma cosa fa pensare che quanto non ha funzionato otto anni fa debba funzionare proprio adesso che le condizioni sono persino peggiori?

M. Paganoni per NES n. 8, anno 20 - settembre 2008

image_2256Dopo le primarie del partito Kadima e le dimissioni di Ehud Olmert, spetterà a Tzipi Livni formare il nuovo governo d’Israele. Se non ci dovesse riuscire, il paese andrà ad elezioni anticipate. Ma un fatto è certo: in ogni caso, almeno sul piano del negoziato di pace, non si ripartirà da zero.
Olmert infatti, prima di lasciare, ha fatto sapere d’aver presentato al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) una dettagliata proposta per un accordo complessivo su confini, profughi e misure di sicurezza fra Israele e futuro stato palestinese. Israele accetterebbe di ritirarsi dal 93% della Cisgiordania (trattenendo alcuni blocchi di insediamenti come Ma’aleh Adumim, Gush Etzion, quelli attorno a Gerusalemme, forse anche Ariel ed Efrat) e cederebbe ai palestinesi dei territori a sud della striscia di Gaza pari a un ulteriore 5,5%. Il resto verrebbe compensato dal passaggio garantito fra Cisgiordania e striscia di Gaza che, pur restando ufficialmente in mani israeliane, permetterebbe di collegare direttamente le due parti del futuro stato palestinese, cosa che i palestinesi non hanno mai avuto prima del 1967, quando la striscia di Gaza era sotto controllo egiziano e la Cisgiordania era annessa alla Giordania.
L’idea è di arrivare alla firma di un accordo entro l’anno, come previsto dalla Conferenza di Annapolis del novembre 2007. Ma si tratterebbe solo di un “shelf agreement”, un accordo di principio la cui attuazione verrebbe rimandata a quando l’Autorità Palestinese sarà in grado di applicare la sua parte: cioè quando le forze di Abu Mazen avranno ripreso il controllo della striscia di Gaza. Fin da subito, tuttavia, Gerusalemme varerebbe politiche di indennizzi volte a promuovere il rientro volontario degli israeliani dai territori del futuro stato palestinese.
In questo modo il governo israeliano potrebbe affermare d’aver finalmente ottenuto un confine concordato pur mantenendo gli insediamenti più importanti, e d’aver rinviato le concessioni sino a quando cesserà il predominio di Hamas su Gaza. Da parte sua, Abu Mazen potrebbe affermare d’essere riuscito a ottenere più del 98% della Cisgiordania (o terre per un estensione equivalente) insieme all’impegno israeliano di rimuovere tutti gli insediamenti al di là del confine concordato.
Oltre a questo, il piano di Olmert prevede che lo stato palestinese sia smilitarizzato, con forze di polizia ma senza un vero e proprio esercito. E naturalmente respinge il cosiddetto “diritto al ritorno” (di fatto, il diritto all’invasione demografica di Israele), a parte un certo numero di casi speciali nel quadro di ricongiungimenti famigliari. Infine, i negoziati su Gerusalemme verrebbero posticipati.
Rispetto ai piani precedenti, la proposta di Olmert sembra collocarsi a metà strada fra quella avanzata da Ehud Barak a Yasser Arafat a Camp David nel luglio 2000 e quella messa sul tavolo da Israele ai negoziati di Taba (a “intifada” già scoppiata) nel gennaio 2001.
Dal punto di vista israeliano arrivare a un accordo di questo tipo sarebbe di estrema importanza, giacché permetterebbe di blindare la soluzione due popoli-due stati (perseguita da Israele) a fronte dei continui assalti alla sua legittimità come stato ebraico, e di scongiurare i sempre più frequenti appelli per la cosiddetta soluzione bi-nazionale (un unico stato arabo-ebraico, che si tradurrebbe di fatto nella creazione dell’ennesimo stato arabo e nell’eliminazione dell’unico stato ebraico). Un problema di non poco conto è dato dal fatto che – forse proprio per questa ragione – i palestinesi, dopo aver lasciato cadere sia il compromesso di Camp David sia quello di Taba, sembrano decisi a respingere anche quest’ultimo lasciato in eredità da Olmert al suo successore. Il portavoce di Abu Mazen, Nabil Abu Rdainah, si è affrettato a definirlo una “perdita di tempo” (Agenzia Wafa, 12.08.08).
Forse non ha del tutto torto. In fondo tutti conoscono già le linee generali e persino molti dettagli della possibile soluzione. Otto anni fa, nel novembre 2000, l’allora presidente Usa Bill Clinton sottopose alle parti una sua proposta di accordo finale frutto di un onesto e volonteroso tentativo di trovare un punto di mediazione fra le opposte rivendicazioni. “La proposta di Clinton – scrive Giora Eiland (YnetNews, 3.09.08) – era e rimane la soluzione più equilibrata possibile per un accordo definitivo, una volta accettato il principio che debbano esistere due stati fra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Chiunque intenda negoziare un accordo finale basato su questo principio non può che arrivare a un risultato analogo o identico a quello di Clinton”. In questo senso, come ha ricordato il presidente d’Israele Shimon Peres, “le differenze tra israeliani e palestinesi nei negoziati sulla questione delle frontiere sono in realtà minime”.
Ma anche la proposta Clinton venne respinta. Dunque – si domanda Eiland – cosa fa pensare che quanto non ha funzionato otto anni fa debba funzionare proprio adesso che le condizioni sono persino peggiori? Ed elenca: minore autorevolezza delle leadership americana, israeliana e palestinese; profonda sfiducia fra le parti dopo anni di intifada delle bombe; irresistibile ascesa di Hamas; nuove minacce militari dai missili d’oltrefrontiera fino all’atomica iraniana. Ma soprattutto, la perdita di fiducia nella possibilità stessa di una soluzione negoziata: se i palestinesi credono sempre meno che il governo israeliano voglia o possa attuare davvero un accordo sullo status finale, d’altra parte fra gli israeliani va scemando sempre più la convinzione che la controparte punti “soltanto” a un piccolo stato palestinese fra striscia di Gaza e Cisgiordania. La soluzione due popoli-due stati, sulla carta, è già stata scritta più volte. Riuscirà il nuovo governo israeliano a convincere i suoi interlocutori a metterla in pratica?