E se Abu Mazen volesse lasciare in eredità una terza intifada?

Di certo non vuole essere ricordato come colui che ha ceduto agli ebrei delle terre musulmane, cioè qualsiasi porzione di terra al di qua o al di là dalla Linea Verde

Di Eric R. Mandel

Eric R. Mandel, autore di questo articolo

Eric R. Mandel, autore di questo articolo

Un recente titolo del Jerusalem Post recitava: “Abu Mazen potrebbe interrompere la cooperazione con Israele sulla sicurezza a meno che non venga creata la Palestina”. Secondo l’opinione corrente, le minacce del presidente dell’Autorità Palestinese di porre termine alla cooperazione sulla sicurezza con le Forze di Difesa israeliane sono semplicemente vuota retorica, giacché Abu Mazen sa molto bene che, senza una presenza militare d’Israele in Cisgiordania, le forze di sicurezza della sua Autorità Palestinese verrebbero travolte in breve tempo. E sa bene che verosimilmente farebbero l’ingloriosa fine dei loro compagni quando nel 2005, nella striscia di Gaza, dopo il disimpegno di Israele, venivano scaraventati giù da edifici di dieci piani ad opera di Hamas, il loro socio nel governo di unità nazionale. Sia Israele che l’Autorità Palestinese sanno che la Cisgiordania diventerebbe molto probabilmente un “Hamastan sul Giordano”: un incubo per la sicurezza di Israele e non solo. Il presidente Abu Mazen sa che nel giro di poche settimane, al massimo pochi mesi, tutto questo diventerebbe realtà.

Ma se questa volta dovesse accadere veramente qualcosa di diverso e il presidente Abu Mazen stesse davvero considerando di porre fine alla cooperazione per la sicurezza? Non potrebbe darsi che Abu Mazen sia arrivato alla conclusione che deve iniziare a pensare all’eredità che lascerà dietro di sé nella cultura popolare palestinese?

Anni fa decise che non può (o non vuole) accettare nessun realistico quadro di parametri per una soluzione “a due stati” che offra a Israele un ragionevole grado di sicurezza, la fine della pretesa del cosiddetto “diritto al ritorno” e una qualche formula per la condivisione del Monte del Tempio di Gerusalemme. Lo sappiamo per certo perché non ha mai risposto all’offerta del 2008 del primo ministro Ehud Olmert che prevedeva la cessione del 96-98% della Cisgiordania (oltre a Gaza), scambi di territori, Gerusalemme est e addirittura il controllo del Monte del Tempio. Eppure l’America e l’Occidente, che premono continuamente su Israele e sostengono che tutto il conflitto ruota attorno agli insediamenti e alle frontiere, fanno finta che quell’offerta non sia mai stata avanzata.

Purtroppo, nemmeno gli analisti più critici verso Israele riescono a immaginare Abu Mazen o un qualsiasi altro leader palestinese che rinunci al “diritto al ritorno”, accolga le esigenze minime di sicurezza d’Israele nella valle del Giordano e firmi un accordo che ponga fine una volta per tutte al conflitto e a ogni ulteriore rivendicazione o pretesa.

Dunque, quali opzioni ha effettivamente Abu Mazen? Come tutti, anche il presidente palestinese pensa all’eredità che lascerà dopo di sé. Il suo sogno non è certo quello di essere ricordato come l’uomo che ha ceduto agli ebrei delle terre musulmane (dar al-Islam), vale a dire qualsiasi porzione della Terra d’Israele al di qua o al di là della ex linea armistiziale del 1949. Forse il suo sogno è quello di emulare il suo mentore, Yasser Arafat, ed essere ricordato dal popolo palestinese come un “combattente per la patria e la libertà”. Forse pensa di poter riscrivere la storia prima che il suo tempo venga a scadere, e di poter essere ricordato come un eroe, non come l’uomo che ha presieduto ai falliti accordi di Oslo e che ha guidato un governo corrotto che ha rubato centinaia di milioni al suo stesso popolo. Forse Abu Mazen è arrivato a capire che, sebbene sia nel decimo anno del suo mandato di quattro anni, sta anche entrando nel nono decennio della sua vita, e non rimarrà il presidente dei palestinesi all’infinito. Forse sogna di essere venerato nel palazzo della Mukata, a Ramallah, dove giace Arafat.

Per i politici americani e occidentali, Abu Mazen è un “moderato” ed è il miglior interlocutore di pace che Israele potrà mai avere. Come disse il presidente Barack Obama nel marzo del 2013, “certo che non si può pretendere da Israele che negozi con qualcuno votato alla sua distruzione, ma pur conoscendo le divergenze tra voi e l’Autorità Palestinese, penso che nel presidente Abu Mazen avete un autentico interlocutore”. Costoro non possono nemmeno immaginare che Abu Mazen possa rifiutare un accordo di pace se soltanto gli si offrisse una quantità sufficiente di concessioni territoriali e simili (naturalmente continuando a ignorare le offerte già fate, come quella di Olmert del 2008). Insistono che tutto si gioca intorno alla questione degli insediamenti, non all’esistenza o alla cancellazione di Israele. Sono assolutamente convinti che ci deve pur essere una “soluzione” in stile occidentale, e che per ottenetela basti semplicemente rimuovere tutti gli insediamenti e porre termina all’“oppressiva occupazione”.

“Non riconoscerò mai l’ebraicità dello stato o uno stato ebraico”

Il che rivela la schizofrenia della politica estera americana e occidentale. Da un lato vedono che i palestinesi sono parte integrante di un mondo arabo dove l’islamismo è in continua crescita tanto da spingere l’Autorità Palestinese “moderata e filo-occidentale” a partecipare a un governo di unità nazionale con i terroristi islamisti di Hamas. D’altro, si aspettano che Israele tratti con i palestinesi come se si trattasse di negoziare con il Canada, e che si fidi di una cultura palestinese che considera il compromesso “alla occidentale” come un cedimento o, nella migliore delle ipotesi, una scelta tattica.

Ma Abu Mazen, purtroppo, non vive in Europa o nel nord America bensì nel mondo musulmano, e il suo comportamento manifesta chiaramente che non è disposto ad accettare una presenza ebraica in qualunque parte del Levante, né certamente una qualunque sovranità ebraica. L’Occidente si rifiuta di riconoscere che, all’alba del 2015, leader arabi “laici” come Abu Mazen non concepiscono e non accettano il concetto di compromesso. Buona parte dai motivi per cui la politica estera americana e occidentale è un tale disastro in Medio Oriente nasce dal fatto che non riesce ad ammettere che le più moderne analisi islamiche non si conciliano con il punto di vista occidentale. L’America è la terra delle soluzioni. In Medio Oriente, a volte, non c’è soluzione, o perlomeno non c’è una soluzione a portata di mano.

Chi ne paga il prezzo è Israele, perché è solo su Israele che si possono esercitare le pressioni di Stati Uniti e Occidente, cioè la minaccia di tagliare la protezione diplomatica sulla scena internazionale. Una minaccia potenzialmente letale per una piccola nazione.

(Da: Jerusalem Post, 24.2.15)