Ecco perché la dichiarazione di Trump facilita il processo di pace

Non siamo più nel ’47. Non riconoscerlo significa assecondare i troppi estremisti musulmani che rifiutano l'esistenza stessa di uno stato ebraico entro qualsiasi confine, con qualunque capitale

Di Yaakov Katz ed editoriale Jerusalem Post

Yaakov Katz

Scrive Yaakov Katz: Al di là dei processi alle intenzioni, ciò che conta è che Trump ha corretto un’ingiustizia storica commessa ai danni dello stato ebraico negli ultimi settant’anni. Nessun altro paese al mondo si è visto imporre da altri la propria capitale. Perché Israele sì? Altrettanto importante è il messaggio che Trump ha inviato a estremisti e terroristi. Se Trump o Israele si fossero piegati alle minacce, avrebbero regalato una vittoria ai violenti e ai terroristi. A lungo termine, questo sarebbe stato ben più pericoloso di qualsiasi reazione che potrebbe scoppiare in questi giorni.

Ma la mossa di Trump invia anche altri chiari messaggi ad almeno tre soggetti importanti. Innanzitutto, dice ai palestinesi che è ora di svegliarsi. L’illusione che violenza e terrorismo possano sconfiggere Israele, o che ebrei e Israele non abbiano nulla a che fare con Gerusalemme e con il paese in generale, è falsa e controproducente. I palestinesi dovranno considerare attentamente le loro prossime mosse. Trump li lascerà sfogare, ma se poi diranno un ennesimo no alla proposta di pace a cui stanno lavorando Jared Kushner, Jason Greenblatt e David Friedman, potrebbero ritrovarsi a trattare con un presidente disposto a dare luce verde a Israele su ben altre tematiche.

Il secondo soggetto sono gli europei. Per anni l’Europa politica è stata fra i più severi accusatori di Israele nei riguardi del conflitto con i palestinesi. Da oggi gli Stati Uniti si distinguono dall’Europa ancor più che in passato. Ciò avrà un impatto sul Quartetto (Usa, UE, Russia, Onu) e sui futuri tentativi dell’Europa di svolgere un ruolo nella soluzione del conflitto. Il terzo soggetto è Israele, dal momento che non esistono pasti gratis. Certo, l’annuncio dello spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme è slegato dal piano di pace a cui sta lavorando Kushner. Ma quando il piano verrà presentato, Israele non potrà facilmente respingerlo. Quando Trump chiederà a Israele di fare concessioni, sarà difficile dire di no a un presidente che ha appena preso una posizione di tale portata.

Non è tutto. Benché il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele non faccia parte del piano di pace Kushner-Greenblatt-Friedman, esso vi si adatta perfettamente. Con questa decisione Trump dimostra di voler perseguire una strategia diametralmente opposta a quella di Barack Obama. Alcuni mesi dopo il suo insediamento, Obama convocò i maggiori esponenti dell’ebraismo americano e spiegò loro che avrebbe creato una divaricazione con Israele come mezzo di pressione per fargli fare la pace. Detta in altri termini, Obama riteneva che un Israele più isolato, più debole, più dipendente dall’America sarebbe stato facilmente costretto a fare concessioni ai palestinesi, e che tanto bastasse per arrivare alla pace. Trump sta mostrando di pensare il contrario. Il suo staff capisce che, per convincere Israele ad assumersi nuovi rischi in nome della pace, gli israeliani devono sentirsi sicuri, garantiti e pienamente legittimati. (Da: Jerusalem Post, 7.12.17)

Il 29 novembre 1947 l’Assemblea Generale dell’Onu raccomandò la spartizione in due stati: arabo ed ebraico. Il piano prevedeva che Gerusalemme diventasse un corpus separatum amministrato dall’Onu per 10 anni, dopo i quali lo status della città doveva essere determinato con un referendum. La parte araba respinse l’intero piano, compresa l’internazionalizzazione di Gerusalemme

Scrive l’editoriale del Jerusalem Post: La decisione di Trump ha finalmente corretto un’ingiustizia storica su diversi piani. Fondamentalmente ha riconosciuto i legami storici del popolo ebraico con la città di Gerusalemme, che risalgono a oltre tremila anni fa. Ma ha anche posto fine all’assurdità di relazionarsi a Gerusalemme come se fosse il corpus separatum previsto dal piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947. Settant’anni fa, prima che palestinesi e paesi arabi rifiutassero senza mezzi termini l’idea che la terra potesse essere divisa tra ebrei e musulmani, le nazioni del mondo avevano immaginato una Gerusalemme sotto controllo internazionale. Luoghi sacri all’islam, al cristianesimo e all’ebraismo sarebbero stati rispettati e sviluppati, e i fedeli di tutte le religioni vi avrebbero avuto libero accesso e diritto di culto. Molto è cambiato da allora. Il fallito tentativo dei paesi arabi di soffocare sul nascere lo stato ebraico finì con la Giordania che teneva sotto controllo la parte orientale di Gerusalemme. Per 19 anni, dal 1948 al 1967, gli ebrei furono banditi dal Muro Occidentale e dal Monte del Tempio. Sinagoghe e altri siti nello storico quartiere ebraico venero distrutti o mandati in rovina. Con una eccezionale svolta degli eventi, nel 1967 un secondo tentativo di distruggere Israele da parte degli eserciti alleati di Giordania, Egitto, Siria, Iraq e Libano, sostenuti da altri otto paesi arabi, è sfociato in una loro sconfitta clamorosa e ha lasciato Israele in controllo, fra l’altro, di una Gerusalemme riunificata come era prima del ’48. Per la prima volta nella storia recente, Gerusalemme divenne una città libera che tutelava i diritti religiosi di tutte le fedi, come aveva immaginato la comunità internazionale. In quanto capitale d’Israele, la città è fiorita con la sua variegata popolazione composta di ebrei, musulmani e cristiani. Ma il mondo, Stati Uniti compresi, ha continuato a rapportarsi a Gerusalemme come se fosse ancora il 1947. Infine, un presidente degli Stati Uniti ha ufficialmente riconosciuto la realtà sul terreno. Chiunque abbia visitato Gerusalemme, ha visto coi propri occhi come Gerusalemme ha prosperato in quanto capitale di Israele, e non solo per gli ebrei ma anche per gli arabi. È una città vivace e piena di attività, dove l’hi-tech convive coi siti storici che riflettono il significato delle tre grandi fedi monoteiste. Tutte le principali istituzioni statali israeliane si trovano a Gerusalemme: la Knesset, la Corte Suprema e quasi tutti i ministeri del governo. L’incapacità della comunità internazionale di riconoscere e apprezzare la trasformazione di Gerusalemme sotto controllo israeliano, e di rispettare la sua scelta come capitale da parte di Israele, era una vecchia ingiustizia finalmente corretta dal presidente Donald Trump.

I tanti detrattori di Trump dicono che la decisione è sbagliata perché suscettibile di scatenare la reazione violenta degli estremisti musulmani, che in effetti hanno già dato ampia prova della loro propensione a usare la violenza per avanzare rimostranze e ottenere quello che vogliono. Siamo solidali con coloro che hanno a cuore la calma e la pace e che desiderano evitare scontri inutili. Ma crediamo anche che i governi, a partire da quello americano, non debbano pregiudicare convinzioni e valori nel tentativo di ammansire coloro che ricorrono sistematicamente a violenza e terrorismo per imporre le loro pretese. Assecondare gli estremisti non funziona mai, e per una serie di motivi. Primo, perché porta solo a maggiore estremismo nel momento in cui dimostra che il metodo dei prepotenti funziona, e dunque fornisce un incentivo per ulteriori violenze. Inoltre, tende a distogliere l’attenzione dal vero problema: che ci sono troppi estremisti musulmani che rifiutano di accettare l’esistenza stessa di uno stato ebraico in Medio Oriente entro qualsiasi confine, qualunque sia la sua capitale. Se così non fosse, per quale altro motivo arabi palestinesi e altri musulmani dovrebbero essere così categoricamente contrari al riconoscimento internazionale di parti di Gerusalemme che rimarranno parte di Israele in qualsiasi accordo di pace credibile? (Da: Jerusalem Post, 8.12.17)