Ecco perché l’iniziativa francese è destinata a fallire

La storia insegna che i palestinesi rifiutano ogni proposta che non comprenda il cosiddetto “diritto al ritorno”. Ma che siano loro a dire “no”, e non Israele

Di Ben-Dror Yemini

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

Ben-Dror Yemini, autore di questo articolo

L’iniziativa di pace francese è nata sbagliata. Infatti non è partita come un’iniziativa, è partita come una minaccia: se Israele non accetta il diktat di riconoscere lo stato palestinese che gli viene imposto, senza trattative e senza che i palestinesi debbano riconoscere Israele come stato nazionale ebraico, allora la Francia sosterrà le rivendicazioni palestinesi.

L’iniziativa prevede richieste fatte a Israele, come fermare la costruzione negli insediamenti al di là della Linea Verde, compresi i quartieri di Gerusalemme come Gilo e i principali blocchi di insediamenti destinati a restare in ogni caso parte di Israele in qualunque accordo futuro. Ma non prevede richieste fatte ai palestinesi, né sul cosiddetto “diritto al ritorno” (in realtà, un diritto di invasione), né sulla cessazione dell’indottrinamento e dell’istigazione: niente. Insomma, non è una cosa seria.

L’irritata reazione di Israele – del tutto giustificata – ha portato a un certo cambiamento di tono. I francesi non promettono più ai palestinesi che riconosceranno lo stato palestinese se i colloqui falliscono (un vero incentivo a farli fallire), e hanno ambiguamente lasciato cadere le loro altre precondizioni.

La collera degli israeliani è però ulteriormente aumentare quando la Francia ha votato all’Unesco a favore della risoluzione araba che in pratica cancella qualsiasi legame tra ebrei, Israele e Gerusalemme. Se una cosa del genere arriva da Teheran, possiamo anche riderci su. Ma se arriva da Parigi? I francesi si sono resi conto d’aver fatto un errore e hanno sconfessato il loro stesso voto. Il ministro degli esteri francese Jean-Marc Ayrault è stato in Israele domenica scorsa. La prossima settimana verrà il primo ministro Manuel Valls, una persona seria e coraggiosa. Stanno cercando di convincere Israele a salire a bordo della loro iniziativa di pace.

Celebrazioni a Gaza per la Nakba 2016

Tutta l’iconografia palestinese sul “ritorno” indica senza remore il rifiuto dell’esistenza di Israele e l’obiettivo di cancellarlo dalla carta geografica

Ma finora tutte queste iniziative di pace sono fallite. Non ci riuscì neanche il dream team formato da Yossi Beilin, Shlomo Ben-Ami e il compianto Yossi Sarid. I palestinesi hanno sempre e continuamente insistito sul “diritto al ritorno”. Non un diritto parziale o condizionato, non un ritorno simbolico. No, un ritorno di massa di milioni di palestinesi (nemmeno profughi, ma discendenti di profughi). Non che Netanyahu avrebbe mai accettato quello che Beilin proponeva, ma il problema non si pone: è Abu Mazen che ha detto “no” a Beilin.

L’esperienza dimostra che non importa cosa viene offerto ai palestinesi, non importa cosa contemplino questa o quella iniziativa. E’ chiaro, ancor prima di iniziare, che Abu Mazen dirà di no. Anche i francesi, nonostante la collera di Israele verso di loro, non offriranno mai ai palestinesi il “diritto al ritorno” come lo intendono loro. Ma qualsiasi proposta che non includa quel diritto al ritorno riceverà la risposta ben nota. Così, nonostante il pregiudizio pro-palestinese, il risultato si conosce in anticipo.

Eppure, per quanto mal concepita sia l’iniziativa, Israele non dovrebbe reagire con un semplice rifiuto. Perché dicendo “no”, la parte araba si è sempre tirata la zappa sui piedi, mentre Israele, dicendo “sì” o “sì ma”’, ha sempre migliorato la propria posizione. E’ stato così con la proposta della Commissione Peel del 1937, con il piano di spartizione dell’Onu del 1947, con la risoluzione di Khartoum del 1967 dopo la guerra dei sei giorni, con il summit di Camp David del 2000 e coi parametri di Clinton del gennaio 2001, con l’offerta di Olmert del 2008, persino con le bozze preparate da John Kerry nel 2014 quando il “no” di Abu Mazen si stagliò netto rispetto al “sì”, esitante e parziale, di Netanyahu.

Celebrazioni della Nakba 2016, nel 68esimo anniversario della nascita di Israele (cancellato dalla carte geografiche palestinesi)

L’unico piano che ha, almeno ufficialmente, l’appoggio dei palestinesi è l’iniziativa di pace saudita del 2002, poi diventata la proposta araba. Ci sono particolari, di quel piano, che sono oggetto di discussione. Ma ciò che è chiaro è che, mentre molti volenterosi commentatori israeliani vedono in quella proposta una rinuncia di fatto al cosiddetto diritto al ritorno, l’interpretazione araba, e certamente quella palestinese, è l’esatto contrario. Eppure Israele dovrebbe dire “sì”, seppur mettendo bene in chiaro, per esempio, che la Risoluzione 194 delle Nazioni Unite, citata dalla proposta araba, si riferisce ai profughi originari del 1948, e non ai loro discendenti. E, in generale, che in tutti i trasferimenti e scambi di popolazione avvenuti negli anni ‘40, i profughi non hanno mai goduto di alcun “diritto al ritorno” (compresi gli ebrei sopravvissuti in Europa e quelli cacciati dai paesi arabi, ora stabilitisi in Israele).

L’iniziativa francese avrà esito negativo, e sarebbe un peccato che se ne desse la colpa a Israele: non sarebbe vero, ma aiuterebbe la campagna palestinese contro Israele. E comunque, l’iniziativa francese è nata a causa della totale impasse negoziale. Invece di un’iniziativa francese, ci sarebbe dovuta essere un’iniziativa diplomatica di Israele, sia per quanto riguarda la striscia di Gaza che la Cisgiordania. Non che i palestinesi avrebbe detto “sì”, figuriamoci. Ma un’iniziativa israeliana avrebbe almeno continuato la tradizione israeliana di dire “sì” alle proposte di pace. Una tradizione che vale la pena di tenere viva, come si è visto.

(Da: YnetNews, 16.5.16)