Elezioni in Israele: la rischiosa scommessa di Netanyahu

Il primo ministro potrebbe ritrovarsi pentito d’aver indetto un voto che si è trasformato in un referendum sulla sua politica e la sua carriera personale

Di Amotz Asa-El

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

Amotz Asa-El, autore di questo articolo

Il voto di martedì per l’elezione della 20esima Knesset si tiene a soli due anni e due mesi dall’elezione della Knesset uscente, e si tratta quindi del voto più anticipato in Israele dal 1961 quando la quarta Knesset si sciolse un anno e dieci mesi dopo la sua elezione. Da allora, ogni decennio ha visto severamente puniti in elezioni anticipate i leader che le avevano volute.

A cominciare dallo stesso padre della patria David Ben-Gurion, per il quale la perdita di voti nel ’61 fu fatale segnando l’inizio della fine della sua carriera politica. Nei decenni successivi si registrarono le sconfitte di Yitzhak Rabin nel 1977, di Yitzhak Shamir nel 1984, di Shimon Peres alle elezioni del 1996 proprio contro l’allora 47enne Benjamin Netanyahu, e dello Shas nel 2003, relegato da Ariel Sharon all’opposizione [cronologia delle elezioni in Israele].

Anche solo i precedenti, dunque, avrebbero dovuto sconsigliare a Netanyahu queste elezioni anticipate. Ma il primo ministro ha evidentemente fatto affidamento su alcuni presupposti che lo hanno portato a ritenere che sarebbe emerso da questa tornata elettorale non solo intatto, ma rafforzato. Quei presupposti saranno messi alla prova nelle elezioni di martedì in quello che si va delineando come un voto pro o contro il leader che le ha indette.

Israele alle urne

Israele alle urne

Il primo assunto di Netanyahu è che i risultati delle ultime elezioni fossero un incidente. Il liberale Yesh Atid (di Yair Lapid), il cui exploit di 19 seggi fu in gran parte all’origine del crollo da 42 a 31 seggi della lista congiunta Netanyahu-Liberman, è stato percepito da Netanyahu una sorta di figlio politico illegittimo. Netanyahu avrebbe potuto interpretare quel risultato come la richiesta da parte dell’elettorato di varare riforme insieme a Lapid. Invece Netanyahu ha visto in Lapid un avversario e ha architettato delle elezioni che – sperava – avrebbero riportato indietro l’orologio politico riproducendo il tipo di coalizione conservatrice in cui si sente a suo agio. Allo stesso tempo, Netanyahu dava per scontato che i voti degli altri soci nella sua coalizione restassero invariati. Infine, indicendo elezioni molto anticipate contava evidentemente di cogliere impreparato l’altro competitor centrista con cui avrebbe dovuto fare i conti: il nuovo partito Kulanu del suo ex ministro delle comunicazioni Moshe Kahlon.

Sul piano sociale, Netanyahu si è basato sull’assunto che le proteste popolari cresciute in questi ultimi anni non richiedessero un’azione governativa urgente ed esauriente. L’espressione più eloquente di questa valutazione è stata la nomina di Uri Ariel (di Bayit Yehudi) a ministro per la casa. L’effettivo operato di Ariel è difficile da giudicare perché è in carica da un anno scarso. Tuttavia, quando Ben-Gurion si trovò ad affrontare la grave carenza di alloggi durante le immigrazioni degli anni ‘50, e quando Shamir dovette far fronte alla domanda di abitazioni per l’ondata dell’immigrazione post-sovietica negli anni ‘90, entrambi non subappaltarono un compito nazionale così urgente ai partner della coalizione, bensì nominarono personalità di punta dei loro rispettivi partiti. La nomina di Uri Ariel è stata percepita come rispondente agli interessi di una frazione dell’elettorato a scapito di un’emergenza nazionale. Lo stesso vale per la nomina di Lapid a ministro delle finanze. Se Netanyahu avesse valutato come ampia e forte la richiesta popolare di un impegno sui temi della politica sociale ed economica interna, avrebbe tenuto il ministero delle finanze per il suo partito, o addirittura per se stesso. Invece lo ha usato come uno strumento per far inciampare Lapid. Evidente l’assunto sociale di Netanyahu – che i travagli della classe media non fossero poi così impellenti come molti sostengono – ha portato alla sua scelta di giocare tutta la campagna elettorale sugli affari esteri: un tema che a suo modo di vedere avrebbe dovuto lasciare in secondo piano ogni discussione su mutui, costo delle case, carovita, tasse scolastiche.

Le schede elettorali delle 25 liste in lizza alle elezioni 2015

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Tutte queste ipotesi sembrano messe seriamente in discussione dai dati dei sondaggi pre-elettorali. La speranza di Netanyahu di schiacciare Yesh Atid resterà probabilmente delusa, giacché il partito di Lapid sembra destinato a sopravvivere a queste elezioni, e a rimanere una forza che conta. Semmai la sfida sul centro verrà anzi moltiplicata da Kahlon che, salvo una clamorosa debacle, sembra destinato a emergere da queste elezioni come l’ago della bilancia, nonché l’indispensabile – e assertivo – componente di qualsiasi coalizione. Inoltre Netanyahu non deve aver previsto la scissione dello Shas, che potrebbe tradursi nel mancato raggiungimento del quorum da parte di una delle parti in cui il suo alleato si è diviso, con conseguente dispersione di voti e perdita di tre o quattro seggi per la potenziale coalizione di destra. L’aver sottovalutato la domanda delle forze sociali verrà giudicato, nel bene e nel male, in base alla performance di Kahlon. Ogni voto per l’ex ministro del Likud sarà considerato un voto di sfiducia verso la politica interna fatta da Netanyahu. Infine, il tentativo di Netanyahu di mettere il tema Iran al centro di queste elezioni non sembra essere riuscito per la prosaica ragione che in Israele non c’è una vera polemica da parte di nessuno sulla sostanza di questo problema.

Riassumendo, Netanyahu potrebbe ancora emergere da queste elezioni con i numeri per la sua risicata coalizione conservatrice, ma in ogni caso resta molto discutibile che la scommessa fatta valesse la pena: giacché le questioni interne rimangono e se non ci sarà Lapid, ci sarà Kahlon pronto ad esigere che vengano trattate.

Questo non vuol dire che gli avversari di Netanyahu abbiano fatto calcoli molto migliori. Lo sforzo iniziale di concentrare tutta la campagna elettorale contro la persona di Netanyahu non è riuscito. I titoloni centrati sulla gestione della residenza del primo ministro si sono rivelati molto presto un polverone artificiale e la stessa Unione Sionista a un certo punto ha capito che era meglio lasciarli perdere.

I sondaggi, a parte aver sottovalutato in passato il seguito della destra, in generale rilevano pochi spostamenti tra destra e sinistra. Il movimento è tutto dentro e attorno al Centro, dove i laburisti possono carpire un po’ di voti a Lapid e al Meretz, e Kahlon al Likud e a Yisrael Beytenu di Liberman.

Se è così che andranno le cose, vorrà dire che il patto di rotazione del leader di Unione Sionista Isaac Herzog con la centrista Tzipi Livni non ha dato i frutti sperati, e forse addirittura è stato controproducente se emergerà che accettare la richiesta di alternarsi sulla poltrona di primo ministro ha scoraggiato gli elettori che vi hanno visto un segno di debolezza. [Lunedì sera Tzipi Livni ha annunciato alla tv Canale 2 che l’accordo di rotazione “non costituirà un ostacolo per i negoziati sulla coalizione”, rinunciando di fatto al suo potenziale biennio da primo ministro.] Anche i candidati dell’Unione Sionista alle finanze e alla difesa, i pragmatici ma di basso profilo Manuel Trajtenberg e Amos Yadlin, non porteranno probabilmente a Herzog quell’elettorato centrista su cui Tzipi Livni non riesce a fare colpo.

In ogni caso, nel bene e nel male, Herzog e tutti gli altri attori di questo voto non hanno fatto che muoversi all’interno di una situazione completamente creata da qualcun altro, e cioè da Netanyahu: che non pare essersi consultato con nessuno prima di destituire i ministri Lapid e Livni e indire le elezioni più anticipate che Israele abbia visto da più di mezzo secolo. A 65 anni Netanyahu è probabilmente più lontano dalla fine della sua carriera di quanto non fosse il 75enne Ben-Gurion nel 1961. Ma, di nuovo, come Ben-Gurion alle sue ultime elezioni, anche Netanyahu potrebbe ritrovarsi pentito d’aver indetto un voto che pensava avrebbe sancito il suo potere e che invece si è trasformato in un sorta di referendum sulla sua politica e la sua carriera personale.

(Da: Jerusalem Post, 15.3.15)