Elezioni politiche palestinesi

In tutta la loro storia, gli abitanti palestinesi di Cisgiordania e striscia di Gaza sono stati chiamati a votare in elezioni politiche generali soltanto due volte, in entrambe le occasioni grazie a un accordo con lo Stato di Israele

M. Paganoni per Nes n. 10, anno 16 - dicembre 2004

image_492In tutta la loro storia, gli abitanti palestinesi di Cisgiordania e striscia di Gaza sono stati chiamati a votare in elezioni politiche generali soltanto due volte, in entrambe le occasioni grazie a un accordo con lo Stato di Israele. Prima di Israele, infatti, non era mai accaduto che le autorità al potere (turchi, inglesi, giordani, egiziani) consentissero agli abitanti dei territori di eleggere organi rappresentativi “nazionali”.
Il principio che i palestinesi di Cisgiordania e Gaza debbano esprimere una rappresentanza democraticamente eletta fu formalmente enunciato per la prima volta nell’Accordo Quadro firmato a Camp David il 17 settembre 1978 dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin. Al punto 1.A del capitolo “Cisgiordania e Gaza”, infatti, si leggeva che “amministrazione militare e civile israeliane verranno ritirate non appena sarà liberamente eletta dagli abitanti di queste aree un’autorità di autogoverno che subentri all’attuale governo militare”. E, al punto 1.B, che “Egitto, Israele, Giordania ed esponenti palestinesi di Cisgiordania e Gaza concorderanno le modalità per istituire l’autorità di autogoverno elettiva in Cisgiordania e Striscia di Gaza, definendone poteri e responsabilità”. L’Accordo di Camp David prevedeva poi che tale “autorità di autogoverno elettiva” fosse parte in causa nei successivi negoziati con Israele, Egitto e Giordania che avrebbero dovuto portare alla “determinazione dello status definitivo di Cisgiordania e striscia di Gaza e dei rapporti con i loro vicini”.
In pratica con gli Accordi di Camp David, che ponevano espressamente alla base del negoziato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Israele accettava il principio che la 242 del 1967 venisse applicata anche al caso dei palestinesi come se fossero uno degli “stati della regione” di cui si occupava la risoluzione. In altre parole: lo stato arabo-palestinese non esisteva (gli arabi ne avevano impedito la nascita nel 1948), ma i palestinesi dei territori avrebbero negoziato con Israele come se fossero l’Egitto o la Giordania, attraverso loro rappresentanze elette. Si trattava di un approccio che avrebbe potuto aprire la strada, con molti anni di anticipo, a un processo di democratizzazione della società politica palestinese e a negoziati diretti fra israeliani e palestinesi. Nel 1978, tuttavia, il mondo arabo (Egitto a parte) non aveva alcuna intenzione di scendere a patti con Israele e rifiutò Camp David in blocco. Un rifiuto che congelò la situazione per altri quindici anni.
Per poter parlare nuovamente di negoziati e di elezioni palestinesi si dovette aspettare il 9 settembre 1993, quando Yasser Arafat a nome dell’Olp indirizzò al primo ministro Yitzhak Rabin la decisiva lettera in cui riconosceva il diritto ad esistere di Israele e ripudiava ogni ricorso alla violenza. Fu il passo che rese possibile la celebre stretta di mano fra Rabin e Arafat del 13 settembre 1993 sul prato della Casa Bianca, e la firma della Dichiarazione di Principi: il documento che segna il vero avvio del processo negoziale israelo-palestinese degli anni ’90. Ed è qui che riappaiono le elezioni palestinesi. Vi si legge infatti, al paragrafo 3.1: “Affinché il popolo palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza possa autogovernarsi secondo principi democratici, si terranno elezioni politiche dirette, libere e generali”.
Sulla base della Dichiarazione del ’93, israeliani e palestinesi stipulano i successivi trattati attuativi (Gaza-Gerico del maggio ‘94, Primo passaggio di poteri dell’agosto ’94, Protocollo economico dell’agosto ’95) fino all’Accordo ad Interim del 28 settembre 1995: il corposo documento (più di 300 pagine) destinato a regolare i rapporti fra israeliani e palestinesi fino alla firma del vero e proprio accordo di pace definitivo. Dunque l’Accordo ad Interim, l’ultimo firmato da Rabin poche settimane prima d’essere ucciso, è quello che ancora oggi è in vigore fra le due parti, arricchito con le successive integrazioni (Hebron, Wye Plantation ecc.)
Fin dal preambolo, l’Accordo ad Interim prevede che “si tengano elezioni politiche dirette, libere e generali per il Consiglio [Legislativo] e il Rais [presidente] dell’Autorità esecutiva, affinché il popolo palestinese in Cisgiordania, Gerusalemme e striscia di Gaza possa democraticamente eleggere rappresentanti responsabili”. Agli organismi elettivi e al processo elettorale palestinese l’Accordo dedica tutto il Capitolo 1 e l’Allegato 2, entrando in dettagli molto specifici: età di voto, registro elettorale, candidature, residenti a Gerusalemme, osservatori internazionali ecc. Ciò che resta poco chiaro, tuttavia, è il rinnovo degli organismi elettivi una volta scaduto i loro mandato. Secondo l’Accordo, infatti, sia il Consiglio che il Presidente avrebbero dovuto essere eletti (“con voto diretto e simultaneo”) per il periodo provvisorio – ad interim, appunto – della durata di cinque anni, al termine del quale sarebbe subentrato l’Accordo sullo status definitivo, nel frattempo negoziato e firmato.
Ma si sa come sono andate le cose. Le prime elezioni palestinesi si tennero effettivamente il 20 gennaio 1996, e portarono all’elezione del Consiglio (o parlamento) e di Yasser Arafat come presidente. L’accordo definitivo, invece, negoziato nel luglio 2000 a Camp David da Arafat e Ehud Barak, non ha mai visto la luce. Anzi, due mesi dopo scoppiava una delle più spietate campagne di violenza della storia della conflitto. Nei quattro anni successivi, dunque, la legittimità degli organismi rappresentativi palestinesi non solo veniva drammaticamente deteriorandosi sul piano politico esterno (rottura con Israele e Usa, isolamento internazionale) e interno (accuse di corruzione e dispotismo), ma perdeva forza anche sul piano strettamente giuridico e diplomatico. Continuare a indicare in Arafat, per quanto ambiguo e inaffidabile, il “presidente eletto dei palestinesi”, a quasi nove anni delle uniche elezioni, diventava sempre più difficile anche per i suoi fan più volenterosi. E a poco serviva affiancargli, come venne fatto, la figura di un primo ministro che, pure, non godeva dell’imprimatur di un voto popolare.
Come nella trama di una tragedia, la situazione si è sbloccata solo con la morte di Arafat e la convocazione, entro 60 giorni, di nuove elezioni. Attenzione, però: elezioni soltanto per la carica di presidente. Come ha sottolineato Daoud Kuttab, dell’università Al Quds di Ramallah (Jerusalem Post, 5.12.04), “nel 2005 vi sono due altri appuntamenti politici palestinesi che non vengono abbastanza considerati: le elezioni, in maggio, per il Consiglio legislativo e le votazioni, in agosto, per l’Assemblea generale di Fatah”. Fatah è il movimento che, vuoi attraverso il Consiglio legislativo sotto il suo controllo, vuoi attraverso il governo di cui è alla guida, vuoi attraverso l’Olp di cui è la fazione più importante, continua a gestire il vero potere. “Ciò significa – conclude Kuttab – che il rinnovo della dirigenza di Fatah rappresenterà il vero punto di svolta per la politica palestinese”.

Nella foto in alto: primi osservatori UE giunti a Ramallah per monitorare le elezioni palestinesi.