Energia verde dal deserto

In Israele le politiche per lo sviluppo sostenibile si basano su una consapevolezza ambientale che risale a prima della nascita dello stato, ma c’è ancora molto da fare

Editoriale del Jerusalem Post

Il "tetto solare" della Knesset

Il “tetto solare” della Knesset (cliccare per ingrandire)

“Da Sion uscirà la legge dell’energia verde – ha annunciato il presidente del parlamento Yuli Edelstein, parafrasando Isaia, alla cerimonia di fine marzo per l’inaugurazione del nuovo “tetto solare” della Knesset – Quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è davvero emozionante, una vera rivoluzione”.

Quando diventerà pienamente operativo, entro la fine dell’anno, il “tetto solare” ridurrà di un terzo la bolletta elettrica del parlamento israeliano. Coprendo una superficie di oltre 4.000 metri quadrati, si tratta del più grande impianto a pannelli solari al mondo che alimenta un parlamento, stando a quanto annunciato dal Ministero degli esteri israeliano.

L’iniziativa “Knesset Verde” venne lanciata lo scorso anno come un’iniziativa trasversale sostenuta da Edelstein, del Likud, insieme a parlamentari di Bayit Yehudi, Meretz e Hadash (quest’ultima formazione oggi fa parte della Lista Araba Comune) e comprendeva inizialmente 13 progetti dedicati al risparmio idrico ed energetico. Il direttore generale della Knesset, Ronen Plot, si augura che altre istituzioni governative e autorità locali seguano l’esempio della Knesset inaugurando propri impianti a pannelli solari. Ogni piccolo passo conta. La Knesset, ad esempio, ha iniziato a servire acqua in brocche di vetro anziché in bottiglie di plastica: anche un piccolo dettaglio come questo può portare a ridurre l’uso di circa 60.000 bottiglie di plastica all’anno.

Tuttavia, affinché questi progetti vengano replicati negli uffici governativi di tutto il paese occorre che altri ministeri e amministrazioni locali si dedichino all’obiettivo di investire in iniziative per l’energia sostenibile. Il che significa fissare obiettivi e stanziare fondi a livello nazionale per questo genere di progetti.

Veduta aerea della Knesset, a Gerusalemme, con i pannelli solari sul tetto e sugli edifici adiacenti

Veduta aerea della Knesset, a Gerusalemme, con i pannelli solari sul tetto e sugli edifici adiacenti (cliccare per ingrandire)

Le politiche governative per un “Israele verde” si basano su una consapevolezza ambientale che risale alle innovazioni introdotte ancor prima della nascita dello Stato. L’approccio innovativo di Israele si è guadagnato numerosi plausi dall’estero. Nel 2011 Sha Zukang, capo del Dipartimento Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite, ha lodato i progressi di Israele in materia di sostenibilità riguardanti le acque, l’agricoltura e altre innovazioni tecnologiche. Nel 2012 Gilad Erdan ha guidato una nutrita delegazione israeliana alla Conferenza Onu Rio+20 sullo sviluppo sostenibile. La delegazione mise in evidenza l’impegno di Israele per un’agricoltura e una gestione delle risorse idriche rispettose dell’ambiente.

E’ una strada che viene aperta anche dall’impegno di ong, istituti di ricerca e comunità locali israeliane. Il kibbutz Lotan gestisce una borsa di studio dedicata a tutti coloro che sono interessati allo sviluppo sostenibile. L’Istituto Arava gestisce programmi per lo sviluppo sostenibile che incoraggiano iniziative innovative di piccole dimensioni in grado di ridurre la povertà e conferire potere decisionale alle comunità locali.

Anche le grandi imprese sono della partita. Secondo l’organizzazione ombrello Maala, che opera in Israele con 130 grandi aziende dedite alla responsabilità sociale e ambientale delle imprese, circa il 55% delle imprese si è dato obiettivi volti a ridurre il consumo di carburante ed energia. Le aziende fissano anche obiettivi per ridurre i rifiuti, mettere in atto energie alternative, ridurre l’uso dell’acqua. Si stima che vi siano più di 200 aziende ad energia rinnovabile, in Israele, di cui il 30% è costituito da start-up, stando ai dati del Programma Nazionale Energia e Acqua Sostenibili del Ministero dell’Economia. Inoltre, iniziatori israeliani e americani hanno lavorato insieme per esportare queste innovazioni all’estero, come il lavoro della Gigawatt Global per creare un impianto a pannelli solare in Ruanda, il primo del suo genere in Africa orientale.

5 giugno 2011, deserto del Negev: inaugurazione del primo campo solare commerciale d’Israele, nel kibbutz Ketura

5 giugno 2011, deserto del Negev: inaugurazione del primo campo solare commerciale d’Israele, nel kibbutz Ketura (cliccare per ingrandire)

Tuttavia, per quanto brillanti siano le tecnologie d’avanguardia e le fiduciose storie di sviluppo sostenibile, la realtà resta fatta di chiaroscuri. Gli israeliani introducevano innovazioni con l’energia solare già trent’anni fa, ma ci sono voluti decenni per lo sviluppo di impianti a pannelli solari su larga scala. Più della metà del territorio di Israele si trova nel Negev e sin dagli anni ‘50 i programmi governativi si propongono di “far fiorire il deserto”. Ma le aziende israeliane devono superare innumerevoli ostacoli burocratici quando vogliono lanciare progetti, anche modesti, nel Negev.

La Arava Power Company, che nel 2011 ha costruito il primo grande impianto solare termodinamico commerciale nel kibbutz Ketura, ha dovuto superare adempimenti burocratici in 24 diversi uffici governativi. L’impianto di Ashalim ha dovuto affrontare ostacoli analoghi, così come hanno fatto gli undici nuovi progetti solari allacciati nel Negev nel 2014. La maggior parte di questi progetti sono piccola cosa rispetto alle potenzialità che il Negev ha da offrire, se le sue terre venissero aperte a progetti su larga scala.

Israele deve bilanciare l’impatto ambientale di tecnologie come le turbine eoliche, ma deve anche adoperarsi per riparare disastri ambientali come la contrazione del Mar Morto.

Il paese ha introdotto grandi innovazioni, ad esempio investendo negli impianti di desalinizzazione e nell’uso in agricoltura di acque reflue riciclate. Ora è giunto il momento di fare un passo avanti in tutti questi campi.

(Da: Jerusalem Post, 1.4.15)