Eppure si muove qualcosa, persino all’Unesco

Ma ci vorrà tempo perché l’agenzia Onu per la cultura riguadagni la credibilità compromessa dalle campagne di menzogne anti-israeliane a cui è stata piegata

Audrey Azoulay

Una donna ebrea a capo dell’Unesco appare come una nemesi totale, per un’organizzazione che da quasi cinque decenni si è fatta conoscere per i suoi pregiudizi anti-israeliani e spesso anti-ebraici, e che si apprestava a eleggere l’antisemita Hamad bin Abdulaziz Kawari, candidato del Qatar: quello che nel 2010 alla fiera internazionale del libro di Doha fece esporre 35 titoli antisemiti tra cui nove edizioni dei Protocolli dei Savi di Sion e che ha firmato la prefazione di un libro in cui si dà voce al negazionista Roger Garaudy per denunciare il “controllo degli ebrei” su mass-media e case editrici.

L’idea che l’ex ministra francese della cultura Audrey Azoulay potesse battere i candidati arabi, proprio in un momento in cui si registravano forti perché l’organizzazione scegliesse come Direttore generale un candidato che non fosse né europeo né nordamericano, sembrava una pia illusione anche solo sei mesi fa. Fra l’altro, lo scrutinio a voto segreto di venerdì scorso del Comitato esecutivo dell’Unesco a favore di Azoulay è arrivato solo due giorni dopo un evento altrettanto insolito: la decisione di rinviare di sei mesi l’approvazione di due tipiche risoluzioni anti-Israele.

Hanno giocato a favore dell’insolito risultato le divisioni interne alla lobby araba tra filo e anti-Qatar, il pugno sferrato sul tavolo dagli Stati Uniti che avevano  annunciato l’uscita dall’Unesco a causa dei suoi preconcetti anti-israeliani, forse anche l’imbarazzo in cui l’agenzia è stata trascinata più volte dall’estremismo dell’Autorità Palestinese che, a partire dal suo ingresso nel 2011, ha fatto di tutto per piegare l’Unesco alla sua sfrontata campagna di menzogne contro Israele.

Ma chi era sinceramente preoccupato per questa deleteria politicizzazione dell’Unesco deve aspettare prima di festeggiare l’alba di una nuova era. Anche la Direttrice generale uscente, la bulgara Irina Bokova, aveva buoni rapporti con i rappresentanti di Israele e del mondo ebraico. Ma inizialmente tali rapporti apparvero compromessi dal voto del 2011 con cui l’Unesco, sotto il suo mandato, ammise la Palestina come “stato membro” dell’organizzazione senza aspettare un accordo di pace con Israele: una chiara manovra dei palestinesi per portare in campo internazionale la campagna di delegittimazione contro Israele, sottraendosi alla necessità di negoziare un compromesso.

“L’Unesco dice che non c’era nessun Tempio ebraico a Gerusalemme. Quindi noi, Chiesa dell’Arrendevolezza, ora insegneremo che Gesù non cacciò i mercanti dal Tempio: li cacciò dal supermercato”

Col tempo tuttavia si è vista Irina Bokova opporsi limpidamente ad alcune delle più controverse risoluzioni anti-israeliane, a partire da quelle del 2016 che disconoscevano i legami storici fra ebrei e il sito più sacro dell’ebraismo, il Monte del Tempio di Gerusalemme. “Il patrimonio di Gerusalemme è indivisibile e ciascuna delle sue comunità ha diritto all’esplicito riconoscimento della propria storia e dei propri rapporti con la città – scrisse Bokova in quell’occasione – Negare, nascondere o cancellare la tradizione ebraica, cristiana o musulmana colpisce l’integrità del sito e contraddice le ragioni che giustificano la sua iscrizione nell’elenco Unesco del Patrimonio dell’Umanità”. Ancora più significativa la scelta nel 2014 di patrocinare, insieme al Centro Simon Wiesenthal, una mostra presso la sede Unesco a Parigi sulla storia ebraica in Terra d’Israele dal periodo biblico a oggi intitolata “Popolo, Libro, Terra: il rapporto di 3.500 anni fra il popolo ebraico e la Terra Santa”.

La volontà di Bokova di mantenere l’Unesco a Parigi su una linea più equa rispetto a Israele è stata minata dallo stesso problema che affligge l’Onu anche a Ginevra e a New York, quando si tratta dello stato ebraico. Alla fine, la maggior parte delle decisioni delle agenzie delle Nazioni Unite non vengono prese dai dirigenti, ma dalla maggioranza degli stati membri molti dei quali si schierano automaticamente e acriticamente su posizioni anti-israeliane. Azoulay non ha perso tempo per parlare della necessità di riformare l’organizzazione. Subito dopo l’annuncio del risultato del voto ha promesso, se verrà confermata a novembre dall’assemblea plenaria dei 195 stati membri, di adoperarsi per ristabilire la credibilità dell’Unesco. E si sa quanto ne ha bisogno.

Di per sé il passato politico della ex ministra della cultura francese non garantisce in questo senso. Di qui la prudenza iniziale nelle reazioni israeliane. Ma è probabile che la tempistica di questa elezione, più delle caratteristiche della persona, possa trasformarla in una leaderhip positiva per coloro, come Israele, che vorrebbero una Unesco più equilibrata, ricondotta alla sua vera missione, non più guidata da pregiudizi politici soprattutto quando si tratta della guerra di delegittimazione condotta contro Israele. Se confermata, Azoulay prende il timone proprio quando gli Stati Uniti hanno annunciato che lasceranno l’organizzazione entro la fine del dicembre 2018. Israele ha annunciato che potrebbe seguire la stessa strada. La scommessa è che Azoulay possa mantenere la promessa di riformare l’Unesco, inducendo Stati Uniti e Israele a cambiare idea. “In questo periodo di crisi – ha detto Azoulay venerdì scorso – credo che abbiamo bisogno più che mai di lavorare all’interno dell’Unesco per sostenerla, rafforzarla e riformarla, e non di abbandonarla”.

La minaccia dell’abbandono è probabilmente l’arma più forte più forte che avrà in mano Azoulay per sostenere le necessarie riforme. Fino al 2011 gli Stati Uniti coprivano il 22% del budget dell’organizzazione. Da allora hanno bloccato i pagamenti per protestare contro l’arbitraria e controproducente inclusione della Palestina come “stato membro” (di cui si sono visti i risultati). Di conseguenza, oggi all’Unesco mancano risorse preziose. In fin dei conti, se davvero nell’agenzia Onu per la cultura avranno luogo dei cambiamenti, è più probabile che saranno il risultato della necessità di assicurarsi questi finanziamenti, più che delle scelte del Direttore generale.

(Da: Jerusalem Post, israele.net, 16.10.17)