False giustificazioni

Se patiscono tanto, perché i palestinesi non si affrettano a firmare un accordo?

Da un articolo di Barry Rubin

image_2687Il conflitto arabo-israeliano, o israelo-palestinese, è l’argomento più frainteso di tutto il mondo. Vengono spesso travisati i fatti di base su quello che è realmente accaduto, e ne vengono offerte le più fantasiose versioni, persino nelle lezioni universitarie.
Sulla singola questione più importante in questo contesto – è cioè la domanda: perché non c’è la pace, chi vuole e chi non vuole che si arrivi alla pace? – viene ampiamente condivisa tutta una serie di argomentazioni rivolte contro Israele. Suona più o meno così: come possono fare la pace i palestinesi, mentre patiscono così tanto e mentre Israele costruisce insediamenti, o i leader israeliani rilasciano dichiarazioni in cui dicono di voler annettere qualche pezzo di territorio, o di non voler cedere pezzi di Gerusalemme, o altre cose del genere? L’idea che i palestinesi non solo bramino la pace, ma cerchino ardentemente di arrivare a un qualunque accordo se non fosse che sono bloccati dall’intransigenza israeliana, sembra la cosa più evidente del mondo, al punto che il tentativo di metterla in discussione viene deriso, ignorato o trattato come una specie di perfida manipolazione.
Per inciso, molte delle cose appena dette sono fattualmente infondate. Negli ultimi quindici anni Israele non ha creato nuovi insediamenti né ampliato i confini municipali di quelli esistenti. Ma per il momento lasciamo stare i dati di fatto, giacché rispondere a quelle rimostranze è di per sé piuttosto semplice.
Se i palestinesi sono tanto miserabili, e desiderano tanto sbarazzarsi degli insediamenti, avevano e hanno una soluzione a portata di mano: firmare la pace. Il loro “interesse”, alla luce di quelle rimostranze, dovrebbe essere quello di fare un buon accordo il più presto possibile.
E invece si sono rifiutati di farlo già in numerose occasioni, a partire da diversi decenni fa. In effetti proprio quest’anno ricorre il trentesimo anniversario dell’accordo israelo-egiziano di Camp David, che per la prima volta apriva la strada a uno stato palestinese. Poi vi furono il Piano Reagan e il dialogo Stati Uniti-Olp degli anni ’80, seguiti dal processo di pace degli anni ’90, da Camp David Due (luglio 2000), dall’offerta del presidente Bill Clinton della fine 2000 e da quella dell’anno scorso del primo ministro israeliano Ehud Olmert (che aveva disperato bisogno di arrivare a un accordo per salvare la sua carriera politica) e l’ancor più recente piano di pace del governo israeliano.
Se i palestinesi firmassero un accordo, otterrebbero uno stato indipendente con capitale a Gerusalemme est, e potrebbero contare su un’enorme simpatia occidentale che li aiuterebbe ad ottenere le migliori condizioni possibili. Cosa non otterrebbero? Probabilmente dovrebbero scambiare – diciamo – un 3 o 4% di Cisgiordania contro un equivalente quantità di territorio israeliano, e probabilmente non otterrebbero tutta Gerusalemme est (ma solo le parti abitate da arabi). Tutto qui. Ah sì, riceverebbero anche parecchi miliardi di dollari in risarcimenti.
A cos’altro dovrebbero rinunciare? Certo, dovrebbero accettare che il trattato di pace ponga fine al conflitto, il che sembra perfettamente logico. E dovrebbero insediare i profughi palestinesi (e loro discendenti) in Palestina, intesa come stato palestinese (e non dentro Israele), il che pure appare perfettamente logico. Probabilmente dovrebbero anche accettare delle garanzie di sicurezza per Israele sottoforma di certe limitazioni al loro esercito e ai loro armamenti. Ma su questo, naturalmente, potrebbero trattare e cercare di ottenere le condizioni migliori possibili. Dopo di che, torno a ripetere, non vi sarebbe più alcun insediamento ebraico sul suolo dello stato palestinese, anche perché alcuni di essi diventerebbero parte di Israele grazie agli scambi di terre che si è detto.
Si noti che in questo preciso momento è l’Autorità Palestinese che, lungi dall’accettare un siffatto accordo, si rifiuta del tutto di negoziare, ufficialmente perché Israele sta costruendo un po’ di abitazioni in alcuni quartieri di Gerusalemme. E allora? Secondo logica, questo per loro dovrebbe essere piuttosto un forte incentivo a negoziare ancora più in fretta, in modo da arrivare alla firma prima che le costruzioni vadano avanti fino al punto di creare, in quei quartieri, situazioni irreversibili.
Come mai per tanta gente è così difficile capire cose così semplici? Naturalmente, perché tanta gente è disinformata e nessuno le fa notare questi aspetti. In una certa misura, la martellante demonizzazione di Israele ha falsato la sua capacità di capire.
Ma il vero problema di fondo è che capire che la soluzione per i palestinesi è fare un accordo di pace – e che non Israele a bloccare questo risultato – mette di fronte a un paradosso irrisolvibile: perché i palestinesi non fanno un accordo di pace il prima possibile, se è vero che patiscono sofferenze così insopportabili?
La risposta? Quello che vuole la leadership palestinese è la vittoria totale e l’eliminazione di Israele. È disposta a lasciare che la sua popolazione soffra per un secolo pur di perseguire questo obiettivo. E spera che il mondo alla fine le consegni tutto ciò che vuole senza dover fare nessuna concessione. Capisce che dire “no” e lasciare che il conflitto continui le garantisce più, e non meno, influenza a livello internazionale perché ciò fa apparire Israele sempre più come la parte colpevole che, di conseguenza, viene castigata attraverso le politiche europee.
Sicché gli argomenti degli occidentali che pensano di essere solidali verso un popolo che soffre sono semplicemente insensati. In realtà non fanno che peggiorare le cose. Ma rientrano nella strategia palestinese volta ad evitare di dover fare la pace, incoraggiando piuttosto questa forma di intransigenza. Di nuovo, il calcolo suona più o meno così: tanto più a lungo i palestinesi rifiutano di fare un accordo di pace, tanta più gente ne darà la colpa a Israele, gli volterà le spalle e farà pressione perché accetti di fare sempre maggiori concessioni unilaterali. Una sorta di approccio masochistico, una disponibilità a patire in cambio di un vantaggio, un vantaggio che in parte scaturisce dall’incapacità di molti spettatori di sospettare che qualcuno possa far ricorso a tali tattiche.
Eppure la verità è lì da vedere. Detesti gli insediamenti? Detesti l’“occupazione”? E allora fai un accordo di pace e ti sbarazzerai di queste cose.

(Da: Jerusalem Post, 7.12.09)

Nell’immagine in alto: in tutta la pubblicistica del nazionalismo palestinese la mappa delle rivendicazioni territoriali è inequivocabile: lo stato di Israele è cancellato