Fin dove può spingersi il cinismo, di fronte a una tragedia umana?

Tutto ciò che il Washington Post avrebbe potuto vedere, e descrivere, ma non l’ha fatto per calcolo politico

Di Yarden Frankl

Yarden Frankl, autore di questo articolo

Il nemico è il cancro. Il cancro uccide. Uccide gli ebrei, uccide gli arabi. Uccide gli anziani e uccide i giovani. Lo so. Ha ucciso mia moglie.

Ha ucciso anche una madre palestinese il cui caso il Washington Post ha scelto di mettere in evidenza. Il Washington Post avrebbe potuto parlare della natura di questa terribile malattia. I suoi inviati avrebbero potuto descrivere le vittime che miete ogni anno fra migliaia di famiglie palestinesi e israeliane. Se volevano sottolineare il lato umano della cosa, avrebbero potuto raccontare dei mariti che restano senza mogli, dei bambini che restano senza madri o padri. Avrebbero anche potuto scrivere dei positivi passi avanti che Israele sta facendo nella lotta contro il cancro. Avrebbero potuto descrivere gli straordinari oncologi israeliani (sia ebrei che arabi), le aziende israeliane che sviluppano farmaci contro il cancro, le migliaia di “medici turisti” che arrivano in Israele da tutto il mondo per avvalersi dell’eccellenza di Israele nella cura del cancro. Avrebbero potuto focalizzare l’attenzione sulle migliaia di palestinesi malati di cancro (compresi i famigliari di svariati capi di Hamas) che vanno in Israele a farsi curare perché né l’Autorità Palestinese né i capi di Hamas a Gaza ritengono di dover destinare importanti risorse alla sanità. A Gaza, i tunnel per infiltrazioni terroristiche, gli arsenali di razzi e le case di lusso per i terroristi di Hamas hanno sempre la precedenza sui reparti di chemioterapia. C’è un altro paese al mondo che apre i suoi ospedali ai nemici che lo combattono?

Invece no. Hanno scelto di concentrarsi su un aspetto specifico della storia di questa povera donna. Hanno scritto sul fatto che solo suo marito, e non tutta la sua famiglia allargata, ha potuto accompagnarla a Gerusalemme per la terapia terminale. È deceduta lontano da casa, senza i suoi figli al capezzale. E l’articolo addita ripetutamente “l’occupazione” come l’abietta colpevole.

Il piccolo Gadeer El Hessee, di Gaza, accompagnato dalla madre al Wolfson Medical Center di Tel Aviv per un intervento al cuore.

I pazienti affetti da tumore la cui malattia è in fase terminale si trovano spesso di fronte a scelte strazianti. Alcuni vogliono fare un ultimo viaggio, altri partono da casa per tentare un estremo trattamento. Ma sanno che corrono il rischio di morire senza il conforto di trovarsi a casa propria, circondati dalla loro famiglia. È una scelta terribile che nessuno dovrebbe trovarsi a dover fare. Tuttavia, né i malati di cancro né chiunque altro ha colpa per questa loro situazione. Indipendentemente da quanti membri della famiglia fossero con lei, Saleh sarebbe comunque morta prematuramente. Questa è la vera tragedia su cui il Washington Post avrebbe dovuto concentrarsi.

Quando mia moglie si sottoponeva alla chemioterapia, il reparto era pieno di arabi e di ebrei, di religiosi e di laici. Non importava a nessuno. La politica si fermava fuori dalla porta del reparto oncologico. Lei decise di rinunciare a qualsiasi ulteriore trattamento quando fu chiaro che, nel suo caso, l’unico risultato delle terapie sarebbe stato quello di prolungare le sue sofferenze. Quando è morta, l’unica da incolpare era la malattia stessa.

Facendo della vicenda di Saleh un servizio sulle restrizioni che Israele deve imporre agli spostamenti dei palestinesi a causa delle concrete, quotidiane minacce alla sua sicurezza, il Washington Post ha politicizzato una storia di sofferenza umana. Le immagini che accompagnano l’articolo sono commoventi. Conosco quello sguardo negli occhi di Saleh e la sconsolata espressione sul volto del marito. Queste immagini, tragicamente, non sono uniche. Erano gli stessi occhi di mia moglie, era il mio stesso volto. Sono gli occhi e i volti di milioni di pazienti affetti da cancro in tutto il mondo e delle persone che li amano.

Il cancro uccide. Il cancro uccide mariti e mogli, genitori e bambini. Ogni giorno, negli ospedali di Gerusalemme e in tutto Israele, i medici israeliani fanno di tutto per cercare di salvare la vita dei malati di cancro. Quando la vita non può essere salvata, cercano di alleviare la sofferenza delle fasi terminali. Gli articoli come questo del Washington Post sviliscono il loro lavoro. Israele meriterebbe di essere elogiato per aver cercato di salvare la vita di questa moglie e madre palestinese, e di migliaia di altre come lei. Invece, dentro questa immensa tragedia umana, viene accusato per un particolare secondario (tristemente necessario per preservare altre vite).

(Da: Times of Israel, 1.6.17)