Fine delle illusioni

La ricerca della pace e della stabilità richiede di fermare lesperimento palestinese il più presto possibile

Da un articolo di Efraim Inbar

image_1564Israele rischia di perdere una grande opportunità di cambiare il discorso diplomatico internazionale sulla questione palestinese. La perdurante anarchia all’interno dell’Autorità Palestinese e l’incombente guerra civile fra le varie milizie offrono l’occasione per scalzare l’errata opinione corrente degli ultimi due decenni: quella secondo cui la soluzione “due popoli-due stati” rappresenterebbe l’unica speranza di pace e stabilità nella regione che si estende fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano.
Tanti hanno sostenuto che il movimento nazionale palestinese sarebbe stato capace di accettare un compromesso con il movimento nazionale sionista e che, successivamente, avrebbe saputo dare vita e gestire uno stato capace di vivere pacificamente accanto a Israele. Purtroppo entrambe queste ipotesi si sono rivelate infondate.
In realtà, la creazione di uno stato palestinese in embrione – l’Autorità Palestinese nata nel 1993-94 – ha portato maggiori spargimenti di sangue e maggiore instabilità. Lo screditato processo di Oslo ha permesso all’Olp, che fra l’altro era stata una grossa organizzazione terroristica, di ottenere una base territoriale in Terra Santa. Le organizzazioni terroristiche sono molto più pericolose e letali quando dispongono di una base territoriale. In effetti a partire dal 1993 il numero di vittime israeliane (e palestinesi) si è moltiplicato per dieci. Inoltre, la nascita dell’Autorità Palestinese ha portato ad una progressiva militarizzazione della frammentata società palestinese, assediata dalle lotte intestine di una miriade di milizie armate.
La non capacità o non volontà di Yasser Arafat di acquisire il monopolio dell’uso della forza e l’escalation del conflitto violento con Israele a partire dal 2000 hanno ulteriormente eroso le capacità di governo dell’Autorità Palestinese, producendo il collasso dell’ordine e del diritto unito a corruzione dilagante.
L’ascesa al potere del gruppo estremista Hamas nel 2006 non ha migliorato la governance dell’Autorità Palestinese, a dispetto delle speranze che gli islamisti potessero impersonare un’amministrazione onesta ed efficiente. Inoltre il rifiuito da parte del governo Hamas di riconoscere Israele ha ulteriormente eroso la convinzione che i palestiensi siano capaci di arrivare a uno storico compromesso con il movimento nazionale ebraico. Nozione che era già stata minata dal rifiuto di Arafat di firmare un accordo con Israele a Camp David nel luglio 2000.
Lo scetticismo circa la capacità dei palestinesi di gestire uno stato funzionante si è ormai diffuso un po’ in tutto il mondo. Israele dovrebbe cogliere l’occasione di questa nuova consapevolezza, in primo luogo nei paesi amici, e aiutarli ad arrivare alla conclusione che l’esperimento palestinese avviato a Oslo è sostanzialmente fallito e che di fatto non esiste una vera opzione palestinese.
Inoltre, c’è ben poco che gli estranei possano fare per rimediare al caos palestinese. In generale, la possibilità per gli stranieri di influenzare le dinamiche socio-politiche interne alle società mediorientali sono assai limitate. La pressioni politiche dell’occidente e/o gli aiuti finanziari difficilmente possono modificare radicate modalità di conduzione degli affari politici. Qualunque tentativo israeliano di intervenire nelle lotte interne della società palestinese è condannato al fallimento. Ad esempio, il trasferimento da parte di Israele di 100 milioni di dollari a Mahmoud Abbas (Abu Mazen) servirà solo a segnare il presidente palestinese come un collaboratore d’Israele, indebolendo ancora di più la sua traballante posizione.
Il sostegno straniero ai palestinesi e/o il mantenimento del sistema di aiuti dell’Unrwa servono solo a sostenere il terribile status quo, aprendo la strada a un’ulteriore militarizzazione della società palestinese e protraendo la sua tendenza ad evitare di affrontare la dura realtà in cui i suoi leader l’hanno condotta.
Tutti i piani diplomatici di cui si parla non fanno i conti col problema principale: il caos palestinese. I palestinesi hanno urgente bisogno di un vero governo, non di “orizzonti politici” che sono solo un eufemismo per intendere la rapida istituzione di uno stato palestinese. Impresa impossibile, giacché i palestinesi hanno già ampiamente dimostrato la loro incapacità di edificare uno stato. Gli ci vorranno decenni per una maturazione politica. Alimentare le speranze nazionali dell’inetto movimento nazionale palestinese non farà che aumentare le sofferenze dei palestinesi e dei loro vicini.
L’unica chance per migliorare la situazione dei palestinesi è un governo straniero, sebbene la cosa suoni politicamente scorretta. D’altronde i loro migliori amici, la sinistra israeliana, propugna un mandato internazionale, ben capendo che i palestinesi non sono politicamente maturi per un vero autogoverno. Tuttavia non è chiaro perché un mandato internazionale attuato da una forza internazionale dovrebbe avere più successo degli Stati Uniti in Iraq. Ricordando il passato coloniale del Regno Unito in Medio Oriente, l’inevitabile realtà è che solo degli arabi potrebbero governare su altri arabi con metodi arabi.
Pertanto la ricerca della pace e della stabilità richiede di fermare l’esperimento palestinese il più presto possibile. Dal momento che Israele non ha alcun desiderio di governare dei palestinesi ingovernabili, tocca a Giordania ed Egitto, entrambi arabi, contenere il movimento nazionale palestinese e governare i palestinesi. È ciò che entrambi quei paesi fecero con relativo successo nel periodo prima del 1967.
Con le fortune dell’Autorità Palestinese al loro punto più basso, anziché sostenere a parole il paradigma perdente “due stati-due popoli”, Israele dovrebbe usare le proprie risorse diplomatiche per incoraggiare un maggiore coinvolgimento di Egitto e Giordania negli affari palestinesi. Sono due stati che hanno firmato accordi di pace con Gerusalemme e che si comportano in modo molto più responsabile della dirigenza palestinese. Se rifiutassero, il caos dilagante infliggerebbe sofferenze in primo luogo ai palestinesi. Nelle attuali circostanze questa conseguenza potrebbe servire a influenzare la curva dell’apprendimento palestinese. Purtroppo, ahimè, c’è gente che impara solo sulla propria pelle.

(Da. Jerusalem Post, 27.01.07)