Giorno della catastrofe e giorno del disastro

Di tutte le nazioni che collaborarono coi nazisti, solo una non ha mai espresso il minimo rammarico.

Di Israel Harel

image_3435La resa della Germania nella seconda guerra mondiale è stata commemorata il 9 maggio in molti paesi del mondo. Quello stesso giorno alcune migliaia di neo-nazisti hanno inscenato una “marcia funebre” per quello che loro definiscono “il giorno del disastro”. Nel loro paese, e ancor di più al di fuori di esso, costoro costituiscono una minoranza ostracizzata. La stragrande maggioranza della gente considera quel periodo come un’epoca di degenerazione morale durante la quale i loro leader, i loro studiosi e i loro comandanti militari furono presi da una sorta di follia che procurò genocidi, aggressive campagne di conquista e la disfatta di molte nazioni. Questa è la lezione che la maggior parte dei tedeschi, e la maggior parte delle nazioni che collaborarono con loro, hanno appreso dal “giorno del disastro”.
Di tutte le nazioni che mandarono dei soldati a sostegno delle gesta dei nazisti, una soltanto non ha mai espresso il minimo rammarico. Al contrario, essa dedica il 15 maggio – il giorno in cui gli eserciti arabi si lanciarono all’invasione dello stato d’Israele che aveva appena dichiarato l’indipendenza – alla commemorazione del lutto per non essere riusciti a conseguire il loro obiettivo. Il rammarico degli arabi non è per la colpa della loro aggressione, bensì per il fatto che non furono capaci di completare il lavoro che Hitler aveva lasciato incompiuto. A differenza dei tedeschi, non provano alcuna vergogna per le gesta assassine dei loro predecessori. Si vergognano invece della loro debolezza e della loro incapacità di portare a termine la missione.
I cittadini arabi d’Israele non hanno mai espresso rincrescimento per il fatto che i loro padri uccisero decine di ebrei che lavoravano nella zona di Haifa, assassinarono i difensori di Gush Etzion dopo che si erano arresi, massacrarono 79 medici e paramedici di un convoglio sanitario diretto all’ospedale Hadassah sul Monte Scopus, uccisero 35 soldati che erano stati mandati in soccorso a Gush Etzion e fecero scempio dei loro corpi. I loro scritti non contengono la minima espressione di rammarico per questi e tanti altri crimini. Il rammarico è solo ed esclusivamente riservato al fatto di non aver potuto fare a tutti gli ebrei ciò che erano riusciti a fare solo ad alcuni di loro.
Nessun leader, nessuno storico, nessun filosofo o chierico arabo ha mai preso la parola per dire pubblicamente ai suoi – come hanno fatto gli intellettuali tedeschi, polacchi e olandesi (e come hanno fatto gli intellettuali ebrei riguardo al trattamento israeliano dei palestinesi) – che dovrebbero farsi un esame di coscienza; che dovrebbero cambiare la narrazione che viene predicata nelle moschee e insegnata nelle scuole arabe, grazie anche ai fondi dello stato d’Israele, secondo la quale il “disastro” derivò da un complotto ebraico incoraggiato dai colonialisti occidentali. Nessuno di loro definisce il gran mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini per quello che era: un assassino. Eppure questo fu l’uomo che, oltre alle stragi perpetrate ai suoi ordini durante la “rivolta araba” del 1936-39, abbracciò lo sforzo di Hitler per realizzare la “soluzione finale” sino al punto di inviare una brigata per aiutare la causa. I nomi dei leader europei che si allearono con Hitler sono diventati sinonimo di abiezione nei loro rispettivi paesi. Il mufti, al contrario, è diventato un eroe nazionale palestinese. Il grido “morte agli ebrei” che saliva dalla sua moschea si sente ancora oggi nelle strade arabe e palestinesi, e continua ad aizzare le masse.
Questo è ciò che commemorano, questa è la Nakba. Questo è ciò che professori e presidi delle Università di Tel Aviv e di Gerusalemme hanno lasciato che si celebrasse nei loro campus. Il significato del grido di battaglia “con il sangue e con il fuoco riscatteremo la Palestina”, urlato nei campus israeliani quando è stata issata la bandiera palestinese, è la diretta continuazione della linea di odio che discende dal mufti e dei suoi successori. E paradossalmente (ma non sorprendentemente) una parte dei “pacifisti” israeliani collabora nel promuovere questa linea.
Non è un messaggio di riconciliazione quello che esce dalle cerimonie della “giornata della Nakba”, nelle università o altrove. Piuttosto queste cerimonie alimentano la speranza che arrivi presto il giorno della vendetta e del castigo, e che gli ebrei, consumati dal senso di colpa, stiano gradualmente perdendo fiducia nella giustizia della loro causa. A quel punto, quando la volontà nazionale israeliana sarà atrofizzata, potrà iniziare la marcia per il “riscatto della Palestina”.

(Da: Ha’aretz, 17.2.12)

Nella foto in alto: “giornata della Nakba” – immancabile la rappresentazione grafica della volontà di “riscattare la Palestina” cancellando Israele dalla carta geografica

Si veda anche:

Ecco perché la soluzione a due stati “deve” fallire. Per i palestinesi e per gran parte dei musulmani il “processo di pace” è metafora della sconfitta

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Nakba e libertà. La vibrante democrazia israeliana si è mostrata in tutta la sua grandezza all’Università di Tel Aviv

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