Gli arabi volevano davvero attaccare e distruggere Israele

Lo provano i documenti arabi studiati dallo storico Michael Oren

image_1721Coloro che definiscono la guerra dei sei giorni “un disastro” o una vittoria di Pirro si sbagliano di grosso perché trascurano un dato di fatto centrale: nel 1967 Israele evitò d’essere distrutto. Lo dice lo storico Michael Oren intervistato dal Jerusalem Post alla vigilia del 40esimo anniversario di quegli eventi.
Michael Oren (senior fellow all’Istituto Adelson di Studi Strategici del Centro Shalem di Gerusalemme, autore del libro ” La guerra dei sei giorni”, pubblicato in Italia da Mondadori, 2003) afferma che dalle sue ricerche sui documenti arabi emerge chiaramente che gli arabi avevano effettivamente programmato di distruggere Israele. Sebbene questa verità appaia del tutto ovvia a chi non ha dimenticato le ragioni di Israele e la responsabilità storica degli arabi nello scoppio della guerra de sei giorni, i quattro decenni trascorsi da allora hanno visto nascere e diffondersi il mito secondo cui Israele non sarebbe stato realmente in pericolo. “Il mito più grosso – spiega Oren – è che in qualche modo non vi fosse una autentica e immediata minaccia araba, che in qualche modo Israele avrebbe potuto uscire dalla crisi con il negoziato e che non si trovasse affatto di fronte a una vera minaccia alla sua esistenza, e forse nemmeno a una qualunque minaccia”. Questo è l’assunto su cui si basa, ad esempio, un libro come “1967: Israel, the War and the Year That Transformed the Middle East” di Tom Segev. “Ciò che è davvero notevole – sottolinea Oren – è che di tutti coloro che sostengono questa tesi, non ce n’è uno che abbia lavorato sulle fonti documentarie arabe. Se ci si pensa, è un fatto piuttosto singolare. È come se Israele vivesse in un universo a parte. Si tratta di un approccio profondamente solipsistico alla storia del Medio Oriente”.
Ciò che sta dietro a questo mito, secondo Oren, “è il tentativo continuo e pervasivo di sostenere che la maggiore se non addirittura tutta la responsabilità per decenni di conflitto col mondo arabo ricadrebbe su Israele, e che gli arabi sarebbero la parte lesa. Sostanzialmente è il tentativo di dimostrare che Israele pianificò in anticipo la guerra dei sei giorni, sapendo che si sarebbe espanso territorialmente. La mia convinzione – continua lo storico – è che è vero esattamente il contrario. Israele fu preso alla sprovvista dalla crisi, era impreparato ad affrontarla ed andò nel panico, profondamente convinto di trovarsi di fronte a una minaccia esistenziale. E non aveva pianificato nessuna espansione territoriale. Fece tutto il possibile per cercare di tenere fuori dalla guerra Giordania e Siria. La mia analisi dei documenti arabi mostra piuttosto che gli arabi avevano realmente progettato l’attacco e la distruzione dello stato di Israele”.
Oren aggiunge che la relazione strategica fra Israele e Stati Uniti nacque proprio con la guerra dei sei giorni del 1967. “Gli Stati Uniti, che fino ad allora avevano considerato Israele come un paese amico, sì, ma anche un paese che danneggiava i loro rapporti col mondo arabo, improvvisamente capirono che lo stato ebraico era diventato di fatto una potenza regionale, e di conseguenza forgiarono con Israele un’alleanza destinata a durare sino ai nostri giorni”.
La prima persona che capì che la guerra aveva drammaticamente mutato l’equilibrio geopolitico in Medio Oriente, secondo Oren, fu l’allora presidente americano Lyndon Johnson, che avviò uno sforzo di pace successivamente espresso nella risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. “In effetti si può vedere la 242 che prende forma nella testa di Johnson dal 5 giugno 1967, compreso il concetto che Israele non sarebbe dovuto tornare sulle linee precedenti la guerra. Johnson diceva che si trattava di linee indifendibili, soprattutto quelle fra Israele e Cisgiordania dove il fronte arrivava solo a una dozzina di chilometri dal mare, per cui Israele non avrebbe dovuto tornare su quelle linee”. La guerra, continua Oren, segnò “l’emergere per la prima volta della relazione strategica fra Israele e Stati Uniti nel momento in cui l’amministrazione Johnson si svegliò la mattina de 12 giugno 1967 e si disse: Oh cielo, ci troviamo fra le mani una potenza regionale, non possiamo permetterci di non averla come alleata”.
Oren si dice perfettamente consapevole che la guerra dei sei giorni portò anche all’inizio dei “controversi insediamenti” in Cisgiordania e striscia di Gaza e del conflitto tuttora in corso su Gerusalemme, nonché all’incoercibile dibattito sulla sovranità palestinese. “E tuttavia – nota – la guerra dei sei giorni è anche quella che ha inaugurato il processo di pace. La risoluzione 242, adottata in conseguenza di quella guerra, rimane la chiave di volta di tutti i negoziati e ha creato le condizioni per l’autogoverno palestinese. L’attuale piano di pace della Lega Araba chiede il ‘totale ritiro israeliano’ sulle linee del 4 giugno 1967, e la Road Map, sostenuta dagli Stati Uniti e da gran parte della comunità internazionale, prevede la nascita di uno stato palestinese in Cisgiordania e striscia di Gaza. Nulla di tutto questo sarebbe oggi possibile se Cisgiordania e striscia di Gaza fossero ancora occupate rispettivamente da Giordania ed Egitto come erano state fino al 1967, e se il mondo arabo come allora si arrovellasse su come meglio fare la guerra, e non la pace, con Israele”.
La guerra del 1967, nota ancora Oren, ha anche “estesamente accresciuto” i rapporti fra Israele e le comunità ebraiche nel resto del mondo. “Prima di quella guerra, alcune delle principali organizzazioni ebraiche americane erano tiepide se non addirittura distaccate nel loro rapporto con Israele. Ma quando gli eserciti arabi si ammassarono ai confini di Israele, gli ebrei della diaspora si trovarono di fronte alla concreta eventualità di dover assistere a un secondo sterminio nell’arco di una sola generazione, ed esplosero di gioia di fronte al successo israeliano. (…)
Per quanto riguarda la guerra in se stessa, Israele patì un alto numero di vittime, perdendo più di 700 soldati in sei giorni di durissimi combattimenti, e – cosa assai poco nota – perdendo anche il 20% dei suoi aerei. “Non fu affatto una passeggiata, soprattutto su fronti giordano e siriano. Alla fine, le conseguenze sul piano territoriale furono sconvolgenti: Israele si ritrovò a controllare un territorio quattro volte più grande delle sue dimensioni precedenti”. Più difficile stimare le perdite arabe le quali, secondo Oren, contarono complessivamente più di 15.000 morti, 10.000 prigionieri ed equipaggiamenti militari sovietici per circa 2 miliardi di dollari distrutti sul campo di battaglia.
Come ultima curiosità, Oren segnala che la guerra dei sei giorni durò in realtà sette giorni, dal momento che l’ultima battaglia per la presa del Monte Hermon venne combattuta nel settimo giorno.

(Da: Jerusalem Post, 5.06.07)