Gli effetti negativi del congelamento degli insediamenti

Specie se ci si dimentica di chiedere alla controparte il rispetto dei suoi impegni

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2539Se si scorrono le mille e passa parole che compongono la dichiarazione diramata venerdì scorso dal Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) sul Medio Oriente, si può restare sorpresi da cosa salta fuori. Ad esempio, il Quartetto ha sostanzialmente detto ai palestinesi che un accordo di pace con Israele esige che essi mettano fine ad ogni altra rivendicazione, intendendo con questo che abbandonino la pretesa del cosiddetto diritto al ritorno [dei profughi palestinesi e loro discendenti all’interno di Israele anche dopo la nascita di uno stato palestinese ]. Il Quartetto ha anche ribadito che l’unità palestinese esige che Hamas si impegni a ripudiare la violenza, a riconoscere Israele e a onorare i precedenti accordi e impegni. Il Quartetto ha persino chiesto l’immediata liberazione di Gilad Shalit (l’ostaggio israeliano trattenuto da Hamas a Gaza da tre anni). Eppure, com’era prevedibile, la richiesta del Quartetto che Israele congeli tutte le attività negli insediamenti è l’unica che ha dominato servizi e titoli sui mass-media di tutto il mondo.
Alcuni segnali indicano che la pressione a tutto campo della comunità internazionale contro gli insediamenti, con in testa l’amministrazione Obama, stia riuscendo a logorare il governo Netanyahu. La posizione dei palestinesi è che i negoziati non partiranno se non vi sarà il blocco totale di tutti gli insediamenti, e la loro definizione di insediamenti è molto ampia: praticamente qualunque forma di vita ebraica al di là della ex linea armistiziale fra Israele e Giordania del periodo 1949-67. Il governo israeliano, sotto le pesanti pressioni di Washington, sembra che stia considerando l’idea di un congelamento di tre-sei mesi, per convincere Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a tornare al tavolo negoziale.
Barack Obama farebbe bene a riflettere su come viene vista dalla maggior parte degli israeliani, quelli che desiderano un accordo di pace, questa sua spinta verso tale congelamento. Gli israeliani si domandano come mai non si vede una campagna altrettanto pesante volta ad esercitare pressione su Abu Mazen affinché esiga che un governo unitario Fatah-Hamas accetti esplicitamente i principi posti dal Quartetto. E come mai non si vedono alti esponenti dell’amministrazione americana chiedere esplicitamente ad Abu Mazen di spiegare bene perché ha rifiutato l’offerta senza precedenti avanzata l’anno scorso da Ehud Olmert che prevedeva il trasferimento allo stato palestinese di un territorio equivalente al cento per cento della Cisgiordania.
La maggior parte degli israeliani si sente molto a disagio per la avara reazione dell’amministrazione Obama di fronte al decisivo discorso tenuto da Netanyahu all’Università Bar Ilan sulla soluzione “due popoli-due stati”.
E come potrà Netanyahu guadagnare maggiore consenso all’interno per muovere con determinazione contro gli avamposti illegali in Cisgiordania, se Obama sostanzialmente afferma che, per lui, una città come Ma’aleh Adumim è un avamposto illegale? Difficile capirlo.
Netanyahu ha tratteggiato la posizione di massimo consenso del corpo politico israeliano: che la “Palestina” deve essere smilitarizzata, onde evitare di svegliarsi una mattina con le Guardie Rivoluzionarie iraniane sulle colline sovrastanti l’aeroporto di Tel Aviv; che la questione dei profughi palestinesi deve essere risolta all’interno dei confini della “Palestina”; che, per estensione, in una regione dove esistono un paio di dozzine di stati musulmani, i palestinesi devono lasciare perdere il “diritto al ritorno” e accettare Israele come stato nazionale ebraico; e che Israele non può accettare di retrocedere esattamente sulle linee armistiziale del periodo 1949-67, quelle linee tanto poco difendibili d’aver incoraggiato più di una aggressione da parte araba.
La questione degli insediamenti è senz’altro complessa e la politica del governo israeliano a questo riguardo appare come minimo poco coerente. Ma un congelamento temporaneo ci avvicinerebbe alla pace? Più probabilmente incoraggerebbe i palestinesi a puntare ancora di più i piedi. A quel punto, perché non dovrebbero chiedere un congelamento permanente? O un congelamento anche nell’area municipale di Gerusalemme? Un alto diplomatico arabo recentemente citato da David Ignatius sul The Washington Post ha detto chiaramente che un congelamento degli insediamenti non basterebbe. Quello che vogliono gli arabi è una soluzione imposta a Israele.
Se invece Obama sostenesse il consenso israeliano, potremmo avvicinarci alla soluzione “a due stati” prefigurata da George W. Bush. Per farlo, tuttavia, dovrebbe aderire agli impegni del suo predecessore riguardo ai blocchi di insediamenti e all’intesa della sua amministrazione riguardo alla loro crescita naturale.
Eccezionalmente tutto questo coincide oggi con la posizione assunta dal primo ministro israeliano attualmente in carica, che è il leader del Likud. Non solo, Netanyahu ha anche preso misure straordinarie e potenzialmente molto rischiose allo scopo di migliorare l’atmosfera negoziale: una drastica riduzione delle operazioni preventive anti-terrorismo e la rimozione praticamente di tutti i posti di blocco interni in Cisgiordania.
Israele è così poco interessato a uno scontro con il popolare presidente americano che questi può ricavarne la sensazione di poter insistere per un congelamento degli insediamenti totale e incondizionato. Il pericolo, in questo caso, è che fra gli israeliani venga meno il sostegno per un accordo secondo l’articolazione data da Netanyahu della prospettiva indicata da Bush. E che i palestinesi si facciano ancora più intransigenti.

(Da: Jerusalem Post, 30.0.09)

Nella foto in alto: L’incontro del Quartetto a Trieste il 26 giugno scorso.