Gli “stipendi” palestinesi ai terroristi sono immorali, pericolosi e affossano ogni possibilità di negoziato

Premere sull’Autorità Palestinese perché cambi politica comporta dei rischi, ma è necessario correrli

Di Moshe Ya’alon e Amos Yadlin

Moshe Ya’alon e Amos Yadlin, autori di questo articolo

Poco dopo la firma degli Accordi di Oslo, l’allora presidente dell’Autorità Palestinese Yasser Arafat iniziò a offrire benefit per la formazione a palestinesi condannati per terrorismo, ufficialmente allo scopo di consentire loro di apprendere un mestiere adatto al reinserimento in tempo di pace. Nel corso del tempo, il programma di riabilitazione è diventato un ministero a sé stante, e i servizi da esso garantiti si sono ampliati dalla formazione occupazionale a trasferimenti di cassa mensili (“stipendi”) direttamente proporzionali alla durata della pena (e, quindi, alla gravità degli attentati commessi contro Israele).

Nel 2004, la politica di sponsorizzare i terroristi condannati venne inscritta nella legge dell’Autorità Palestinese e nel 2010 lo stipendio annuale versato ai terroristi condannati a pene trentennali risultava quasi 20 volte il reddito medio pro capite dei palestinesi di Cisgiordania, mentre il bilancio del relativo ministero superava i 100 milioni di dollari. Paradossalmente, quello che vent’anni fa era iniziato come un programma teoricamente volto a riabilitare palestinesi accusati di violenze contro gli israeliani, per reinserirli in una vita pacifica, è diventato un programma che incentiva i palestinesi a commettere atti di terrorismo più sanguinosi possibile.

Alla fine la comunità internazionale è venuta a sapere della politica di sponsorizzazione del terrorismo da parte dell’Autorità Palestinese e ha iniziato a fare pressione sulla sua dirigenza affinché ponesse fine a queste pratiche che mettevano i paesi donatori nella condizione di complici involontari. La risposta dell’Autorità Palestinese è stata quella di delegare la responsabilità dei pagamenti all’Olp, trasferendole semplicemente i fondi da distribuire. In sostanza, un cambiamento cosmetico (o, se si preferisce, un imbroglio) che ha placato i donatori stranieri perché crea una certa separazione tra il governo di Abu Mazen e il programma pro-terroristi.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) in compagnia della terrorista Amana Muna, scarcerata nel quadro del ricatto palestinese per la liberazione dell’ostaggio Gilad Shalit. Nel gennaio 2001 Amana Muna, con alcuni complici, sequestrò e uccise a sangue freddo il 16enne israeliano Ofir Rahum attirandolo in una trappola con profferte sessuali via internet.

Ma quali conseguenze comporta lasciar proseguire il programma dell’Autorità Palestinese volto a mobilitare e militarizzare la società palestinese?

In termini puramente economici, i premi dell’Autorità Palestinese ai terroristi detenuti creano forti incentivi finanziari per i palestinesi bisognosi, che in questo modo sono spinti a impugnare le armi. L’offerta di compensazioni monetarie per gli atti di terrorismo non è che uno degli aspetti della multiforme campagna dell’Autorità Palestinese tesa a mobilitare la società palestinese contro Israele. Essa si integra con altre politiche dell’Autorità Palestinese che conferiscono grandi onori a chi commette atti di terrorismo intestandogli spazi pubblici, esaltandone le virtù nei proclami pubblici, definendo “martiri” sui mass-media controllati dall’Autorità Palestinese coloro che muoiono compiendo attentati, e garantendo vitalizzi ai loro famigliari (anche quando non avevano persone a carico) nonché coprendo le spese delle cerimonie funebri.

Non basta. Siccome tutti i governi hanno risorse limitate, l’applicazione di questa politica significa che l’Autorità Palestinese, già a corto di liquidi, elargisce i suoi soldi a coloro che stanno in carcere per aver ucciso israeliani a scapito dei servizi di cui avrebbe effettivamente bisogno la popolazione (più insegnanti, più operatori socio-sanitari ecc).

Naturalmente, tutto questo ha anche conseguenze sul potenziale rilancio dei colloqui di pace. L’Autorità Palestinese sostiene d’aver abbandonato la “lotta armata”, ed è su tale base che è riconosciuta da Israele come interlocutore. Ma che legittimità ha il presidente Abu Mazen come interlocutore per la pace se il suo governo continua a remunerare la violenza? In effetti, non solo l’Autorità Palestinese premia i palestinesi per gli atti di terrorismo, ma versa lo stipendio-premio anche agli arabi con cittadinanza israeliana che intraprendono tali azioni, il che equivale a sponsorizzare l’eversione all’interno di Israele. Ovviamente questa politica mina alla base il riconoscimento dell’interlocutore palestinese fatto da Israele con la stretta di mano del 1993.

Non meno importanti sono le conseguenze del fatto che l’Autorità Palestinese, per i posti di lavoro come dipendente pubblico, garantisce la preferenza in base al fatto d’aver ucciso o tentato di uccidere israeliani. Innanzitutto, garantire posizioni autorevoli e influenti ai colpevoli di atti di violenza contro Israele significa chiaramente presentare queste figure alla popolazione generale come modelli da imitare. In secondo luogo, riempire l’amministrazione di persone che considerano la violenza il mezzo per risolvere il conflitto verosimilmente non fa che allontanare la politica del governo palestinese dalla moderazione e dal compromesso. In terzo luogo, questa pratica offre un ulteriore motivo per mettere in dubbio la fattibilità e la natura del futuro stato palestinese, visto che il suo futuro governo valuta i candidati ai posti di lavoro non in base a qualifiche e competenze, ma alla gravità dei crimini commessi contro Israele.

17 luglio 2016: dirigenti dell’Autorità Palestinese applaudono l’inaugurazione del “Monumento all’eroico martire prigioniero Ahmad Jabarah Abu Sukkar”: un terrorista personalmente responsabile dell’assassinio di 15 civili israeliani

Tuttavia, dal momento che Ramallah ha dimostrato la propria determinazione nel proseguire questa politica facendo i necessari adeguamenti istituzionali pur di “nasconderla” alle crescenti critiche, Israele ha bisogno di un approccio che sia in grado di convincere il governo di Abu Mazen che la ritorsione economica cui andrà incontro sostenendo i terroristi detenuti supera qualsiasi beneficio che gli venga dal farlo. Una possibilità, che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha disposto (ma non ancora attuato), è che Israele calcoli l’importo del finanziamento dirottato ai terroristi e sottragga tale importo dalle imposte che riscuote per conto dell’Autorità Palestinese. In pratica, Israele costringerebbe l’Autorità Palestinese a pagare due volte, se decide di continuare con la sua politica attuale. Un’altra opzione è quella di creare una coalizione internazionale di donatori stranieri che stabilisca e faccia rispettare delle linee guida atte a prevenire l’uso improprio degli aiuti esteri. Il Regno Unito lo ha già fatto, e Israele potrebbe probabilmente trovare altri partner disponibili fra gli infuriati rappresentanti di Stati Uniti, Germania e Australia che hanno già manifestato il forte desiderio di porre fine al cattivo uso dei soldi dei loro contribuenti utilizzati per premiare il terrorismo. Tuttavia, le minacce economiche non possono garantire la fine della pratica se l’Autorità Palestinese è disposta a sopportare le ritorsioni economiche, giacché Israele non ha la possibilità di interferire direttamente con i fondi incanalati dall’Autorità Palestinese all’Olp e nei conti bancari palestinesi.

Nel mettere a punto una risposta a questa politica estremamente preoccupante dell’Autorità Palestinese, i decisori israeliani devono tener conto della possibilità che le loro azioni possano avere la conseguenza collaterale di far cadere il già impopolare governo di Ramallah. Ad esempio l’Autorità Palestinese, di fronte a una crescente pressione esterna a cui non è disposta a cedere, potrebbe sciogliersi per propria decisione. Altri due possibili scenari in cui le azioni di Israele determinerebbero la fine dell’Autorità Palestinese sono riconducibili alla condizione dello stato fallito: l’Autorità Palestinese potrebbe rifiutarsi di modificare le sue pratiche e subire una ritorsione economica che provocherebbe il collasso del suo sistema clientelare, oppure potrebbe aderire alle richieste esterne e abbandonare i terroristi che ha sinora celebrato come eroi nazionali, provocando in tal modo un’insurrezione popolare.

Dalla pagina Facebook di Fatah (13.1.17): il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen posa con un bambino che tiene un’immagine di un raduno di Fatah dove si vedono poster dello stesso Abu Mazen e di Dalal Mughrabi, la terrorista che guidò uno dei più sanguinosi attentati della storia d’Israele (37 civili morti, fra cui 12 bambini)

Cionondimeno Israele non deve astenersi dall’agire contro queste politiche semplicemente perché agire comporta dei rischi. In primo luogo, una mancata risposta al sostegno dell’Autorità Palestinese verso i terroristi per timore di un suo collasso istituzionale invierebbe il messaggio che Israele cerca di mantenere in vita l’Autorità Palestinese a ogni costo, cioè che non vi saranno mai serie conseguenze per le politiche, anche le più pericolose, dell’Autorità Palestinese. Se col suo silenzio Israele manda questo segnale, ci si può solo aspettare un comportamento sempre peggiore da parte dell’Autorità Palestinese. C’è poi da osservare che in passato le ripetute minacce dell’Autorità Palestinese di chiudere bottega si sono dimostrate vane, e non vi è alcuna indicazione credibile che essa voglia rinunciare volontariamente alla sua presa sul potere (specie considerando i recenti sforzi di Abu Mazen per consolidare il proprio potere). Infine, se l’Autorità Palestinese dovesse crollare a causa della pressione di Israele, cosa tutt’altro che certa, le conseguenze sarebbero certo significative, ma gestibili.

Come per qualsiasi altro governo al mondo, proteggere i propri cittadini è il dovere primario per lo stato d’Israele. Esso pertanto ha l’obbligo morale di fare tutto quanto in suo potere per porre fine alla politica dell’Autorità Palestinese di incentivare finanziariamente l’omicidio di israeliani. Fare pressione sull’Autorità Palestinese perché ponga fine alla sua politica degli “assassini prezzolati” si accompagna a rischi politici e di sicurezza, ma la rettitudine morale comporta spesso la necessità di far fronte a dei rischi. In questo caso, costringere l’Autorità Palestinese a spendere il proprio denaro per fornire servizi reali alla sua gente, anziché dirottare i fondi ai terroristi detenuti, potrebbe avere un risvolto positivo inducendola a creare istituzioni più efficaci e ampliare in questo modo la propria base di consenso.

(Da: Jerusalem Post, 6.3.17)