Guardare in faccia la realtà

Porre precise condizioni per il negoziato indicherebbe più serietà e realismo

Di Moshe Elad

image_2454Mentre un nuovo governo sta per entrare in carica in Israele e si profila una nuova campagna occidentale per l’attuazione del concetto “due popoli-due stati”, è forse opportuno prendere in considerazione la possibilità di adottare nuovi modelli di negoziato che potrebbero essere in grado di porre fine all’impasse.
Nel format attuale, i negoziati fra Israele e palestinesi si sono totalmente esauriti, per lo più a causa dell’assenza di franchezza e di apertura, oltre che per i vani tentativi di aggirare la verità che sta dietro alle difficoltà. Vi sono ad esempio diverse espressioni fuorvianti che dovrebbero essere rimosse dal lessico del processo di pace.

PROCESSO FINE A SE STESSO
La prima è l’affermazione secondo cui “la cosa più importante è che stiamo dialogando”. Per anni gli Stati Uniti e il Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) hanno visto il “processo di pace” come un risultato in se stesso, facendo continua pressione perché prosegua. Vi sono non poche persone da entrambe le parti che si sono autenticamente innamorate di questo vano “processo”: il quale che senza dubbio funziona molto bene per neutralizzare le pressioni sull’occidente da parte degli stati arabi e per tenere a freno le pressioni all’interno degli stessi stati arabi “moderati” da parte di elementi islamisti. Intanto i palestinesi usufruiscono del loro attaccamento al “processo” sottoforma di ricompense monetarie, scarcerazioni di detenuti e altre concessioni offerte di tanto in tanto. Israele è costretto in un “processo” che nel suo attuale format è vano e senza senso, trovandosi quasi sempre nella parte di chi dà e paga. Invece Israele dovrebbe, sì, negoziare con i palestinesi, ma solo dopo che fossero state messe in chiaro alcune precise condizioni, a cominciare dal fatto che il “processo” in se stesso non è la sostanza né l’obiettivo.

NEGOZIATO SENZA REALE RAPPRESENTATIVITA’
Una seconda affermazione che suscita interrogativi circa l’onestà e la franchezza dei negoziatori è quella secondo cui “Mahmoud Abbas (Abu Mazen) rappresenta il popolo palestinese”. In realtà rappresenta i palestinesi esattamente come lo Scià di Persia rappresentava gli iraniani sulla scia della rivoluzione khomenista. Lo Scià conveniva senz’altro all’occidente, ma il popolo iraniano la pensava diversamente. Di nuovo, l’occidente persegue l’opzione che gli pare più conveniente mentre noi israeliani, come sudditi sottomessi, accettiamo il “moderato in doppiopetto” come unico e definitivo interlocutore per il dialogo. Come fa l’occidente a pensare che Israele debba fidarsi di un leader palestinese che non controlla per nulla il suo popolo e che non lo rappresenta affatto? Tutto sommato firmare un accordo con lui sarebbe assai problematico. Perché non mettere alla prova il livello di controllo di cui gode Abu Mazen e solo successivamente considerarlo un legittimo partner del dialogo?

FINZIONI ED OMISSIONI
La terza affermazione sconfina nel rischio di affermare una falsità: “Le parti stanno discutendo la questione del diritto al ritorno”. Ma andiamo: i palestinesi non hanno mai accettato un compromesso sulla loro principale richiesta, quella di portare i profughi (e i loro discendenti) all’interno della Terra d’Israele, comprese le terre all’interno della Linea Verde (cioè all’interno di Israele pre-’67). In questo modo hanno vanificato qualunque possibilità di condurre un autentico processo di pace e hanno impedito qualunque possibilità di porre fine al conflitto con un compromesso di portata storica. Qualunque tentativo di cavare un messaggio di compromesso o di flessibilità da parte dei palestinesi su questo tema viene sempre e solo preso su iniziativa di Israele, e la parte palestinese ogni volta si affretta a smentire. Chi conosce davvero lo status e il ruolo del cosiddetto “diritto al ritorno” nel retaggio palestinese, sa che nessun essere umano palestinese oserebbe fare alcuna concessione su questa materia. E allora perché imbrogliare con false affermazioni? L’occidente, atterrito all’idea che il “processo” si bloccasse sin dall’inizio, ha spinto entrambe le parti a rimandare alla fine la discussione sulla questione del “diritto al ritorno”; intanto entrambe le parti possono dilettarsi con faccende più semplici come Gerusalemme, il futuro degli insediamenti, i confini… ma anche su questi temi finora non si è arrivati a nessun accordo sostanziale.

Recentemente si è udita la richiesta di “portare Hamas dentro la cornice politica”. Come c’era da aspettarsi, ci siamo sentiti dire che Hamas sta per accettare accondiscendere alla richiesta di Fatah di entrare in un governo di unità nazionale palestinese. Ovviamente anche l’occidente non crede affatto che, entrando nella vita politica, Hamas porrebbe fine alle attività terroristiche o cambierebbe la propria piattaforma programmatica. Anche l’occidente sa che Hamas non ha affatto cambiato la sua ideologia distruttiva, e che tutte queste sono solo manovre tattiche intese a guadagnare popolarità e soprattutto a impadronirsi dei fondi stanziati per le ricostruzioni nella striscia di Gaza.
Se il presidente Barack Obama, il segretario di stato Hillary Clinton e il Quartetto internazionale vogliono davvero un genuino processo di pace, dovrebbero rivedere la cornice intera dei negoziati in modo tale che il concetto che il “dialogo non è a qualunque prezzo” assuma almeno altrettanta importanza dell’infatuazione per un vano processo. Porre precise condizioni per il dialogo indicherebbe più serietà e più realismo. Ecco perché la discussione sulla questione centrale più ostica, il “diritto al ritorno”, dovrebbe essere affrontata sin dall’inizio del processo, prima che Israele faccia la prima concessione. L’occidente dovrebbe togliere la “maschera” del ritorno dal volto palestinese, contringendoli a scendere a un compromesso su questa materia (cosa che finora non è mai accaduta), come condizione necessaria per ogni ulteriore passo avanti.
I rappresentanti dell’occidente dovrebbero anche considerare le implicazioni delle firma di un futuro accordo con Abu Mazen, giacché l’occidente potrebbe trovarsi in grande imbarazzo il giorno che Abu Mazen, poche ore dopo aver firmato un trattato di pace, si ritrovasse spedito in esilio in qualche posto lontano. In questo senso, l’occidente dovrebbe anche essere più onesto con se stesso riguardo alle vere intenzioni di Hamas. I palestinesi ci hanno dolorosamente insegnato che non tutti coloro che sono interessati alla pace sono anche capaci di prendersi le responsabilità necessarie per attuarla. Ma intanto la stessa Europa che ci ha mostrato come si fa a rimandare l’ingresso nella UE di stati arretrati e impreparati finché non rispondono a certi precisi parametri, vorrebbe obbligarci ad accettare uno stato molto più arretrato e inadeguato come partner nel dialogo di pace, e a fidarci di lui. Dall’altra parte gli Stati Uniti, che non sono riusciti a “domare l’Iraq” per via del loro approccio anacronistico e paternalista, ci spingono a muoverci rapidamente verso un analogo fallimento. E tutto questo sotto le sembianze del sacrosanto “processo di pace”.

(Da: YnetNews, 21-22.03.09)

Nella foto in alto: Moshe Elad, autore di questo articolo