Guerra permanente?

I militari israeliani considerano quella con gli arabi ununica guerra lunga decenni

Da un articolo di Amir Oren

image_1242Ancora un missile Qassam lanciato verso Ashkelon, ancora una reazione dell’artiglieria israeliana su Beit Lahia, un altro attentato suicida sventato, talvolta uno riuscito. Sono i titoli di giornali, telegiornali e notiziari internet di una normale giornata in Israele. Ma il messaggio che le Forze di Difesa israeliane traggono da macerie e crateri è ben più importante delle notizie di cronaca, ed è: non finirà tanto presto. Non finirà questa settimana, né quest’anno, né in questo decennio. Questa è la nostra vita, per quanto sia possibile prevedere: scontri sanguinosi senza fine. L’idea dello scontro come persistente e continuo è l’inevitabile conclusione che si ricava da uno studio interno delle Forze di Difesa israeliane elaborato nel corso degli ultimi due anni e che presto potrebbe diventare ufficiale.
È significativo il fatto che, mentre lo studio veniva elaborato, è cambiato il capo di stato maggiore. Dapprima, sotto Moshe Ya’alon, durante la transizione nell’Autorità Palestinese da Yasser Arafat a Mahmoud Abbas (Abu Mazen), le Forze di Difesa israeliane parlavano di arrivare a una decisione per spezzare la volontà palestinese di continuare all’infinito il conflitto. Ora, sotto Dan Halutz, e specialmente dopo l’ascesa al potere di Hamas, questa ambizione appare abbandonata, mentre sembra prevalere su entrambi i versanti lo stesso stato d’animo: quello che accetta la persistenza del conflitto come un destino inevitabile. La sfida non è più tanto uscire dal conflitto – perché non si vede via d’uscita – quanto imparare a convivere con il conflitto, senza uscire di senno né esaurire la propria forza e le proprie energie.
Lo stato maggiore di Halutz, guidato dal suo vice Moshe Kaplinsky, è arrivato a dare le propria risposta alla vecchia domanda posta una generazione fa da Moshe Dayan: dovremo vivere per sempre con la spada in mano? Purtroppo la risposta è sì. Anche se si alterneranno, come in passato, momenti di calma e momenti di conflitto. Determinismo? Fatalismo? Pessimismo? “Semplicemente realismo”, risponde un generale: il conflitto è irrisolvibile, le rivendicazioni delle due parti non possono convergere incontrarsi né possono essere composte con un compromesso sulla coesistenza che garantisca la pace. Questa la spada di Damocle, questo il tetto pericolante che non può essere sostituito e che minaccia in ogni momento di crollare sulla testa di chi sta sotto. Sotto, poi, rimane spazio per la vita di tutti i giorni, per la gestioni dei rapporti, per “appianare la violenza” e – almeno finché le forze di sicurezza riusciranno a garantire la società, l’economia, i cittadini – per lo sviluppo e il benessere anche in tempi di conflitto.
L’equipe dello stato maggiore distingue tra conflitto e singoli scontri, questi ultimi essendo solo dei round di un contenzioso di lunga durata, così come si distingue fra una guerra e ogni singola campagna militare, o fra una campagna militare e ogni sua singola battaglia. Secondo questa valutazione, ciò che è avvenuto negli ultimi sei anni non è altro che il decimo grande scontro, a partire dal 1929, di un unico, protratto conflitto tra israeliani e arabi [1929, 1936-39, 1947-49, 1956, 1967, 1969-70, 1973, 1982, 1987-91, 2000-06].
In questo quadro, è interessante notare come per diciotto anni, a partire da quando il giovanissimo Hussein salì al trono di Giordania (1952) fino al Settembre Nero (1970), Israele ha coltivato un complicato sistema di relazioni calde-fredde con il regno Hashemita, che evitava di impegnarsi in uno scontro diretto con le formazioni armate palestinesi. Per altri diciotto anni Israele ha poi accarezzato l’idea di una “soluzione giordana” per la Cisgiordania fino a quando, nel 1988, re Hussein rinunciò formalmente alle pretese territoriali ad ovest del Giordano, lasciando che israeliani e palestinesi se la vedessero fra loro, gli uni contro gli altri. Nei diciotto anni successivi Israele ha fatto qualche parziale passo avanti verso il compromesso coi palestinesi, dapprima con la mediazione degli Stati Uniti, poi direttamente con il movimento nazionalista laico palestinese.
Ma il 2006 ha visto l’inizio di una nuova stagione, dal carattere religioso e intransigente. Hamas e altri sottoprodotti palestinesi della Fratellanza Musulmana (i cui testi vengono attentamente studiati dallo stato maggiore israeliano) possono tollerare accomodamenti solo nel contesto di una strategia che non ammette concessioni. Il vecchio terrorismo Olp ha fatto il suo tempo, ed è stato sostituito dal terrorismo Hezbollah, Hamas e della Jihad globale.
La percezione della guerra come fenomeno protratto, praticamente interminabile, rafforza nelle Forze di Difesa israeliane la consapevolezza che occorre sviluppare doti di adattamento, resistendo alla tentazione di lanciare costose operazioni su larga scala che impongono la calma solo per brevi periodi.
L’opzione che resta, adottata senza entusiasmi nel caso della striscia di Gaza dopo il ritiro, è la risposta al fuoco palestinese da cielo, terra e mare. I suoi limiti – “imporre un prezzo”, mostrare determinazione – sono chiari. La pressione sulla popolazione può spingerla a pretendere da Hamas che fermi i lanci di missili Qassam, ma può anche mobilitare la comunità internazionale e la stessa opinione pubblica israeliana contro la politica israeliana e minare lo sforzo di Israele di offrire ai palestinesi una chance di governarsi per un migliore futuro (se solo adottassero un atteggiamento di compromesso). Il sogno di Israele è quello di individuare una forza locale palestinese che faccia cambiare atteggiamento a tutti i soggetti intransigenti: da questo punto di vista, poco importa se deve essere Fatah che mette sotto controllo Hamas, o Hamas che mette sotto controllo Fatah.
La decina di anni del processo di Oslo aveva già dimostrato che questo sogno non poteva realizzarsi con Yasser Arafat. Ora Hamas, che ripudia Oslo (e curiosamente si trova a capo di un’Autorità che venne creata grazie a un accordo fra due soggetti che Hamas non riconosce: Israele e Olp), ha seppellito quel sogno del tutto.
Hamas crede che il tempo lavori a suo favore. Vuole guadagnare tempo per rafforzarsi e chiudere il gap nell’equilibrio di forze con Israele. La tregua conviene a Hamas fino al momento in cui deciderà che non fa più il suo gioco. Israele ha bisogno di un’iniziativa che destabilizzi Hamas e porti al potere, fra i palestinesi, soggetti moderati ma forti, in grado di agire contro gli estremisti intransigenti. Abu Mazen è un moderato, ma non è forte. E ancora non si vede un leader che sia in grado di chiamare a raccolta forze palestinesi per contrapporsi seriamente al vicolo cieco di Hamas.

(Da: Ha’aretz, 2.05.06)