Hayim Beer

Saggio sulla lingua ebraica

Hayim Be’er

Sulla lingua ebraica.

Nella preghiera della ‘amida appare un’espressione da un lato oscura e da un lato affascinante – “i superstiti tra i loro scribi” – che coloro che pregano pronunziano frettolosamente chiedendo a Dio che ne abbia misericordia insieme agli altri “anziani del tuo popolo, casa di Israel”. Spesso ho la sensazione che questa espressione sia in qualche modo riferita anche a me.

Sembra che io sia stato annoverato – e magari potessi essere smentito – tra gli ultimi superstiti rimasti dopo la disfatta del processo culturale-letterario più sorprendentemente rapido che si sia verificato nella storia della lingua, e non mi riferisco, naturalmente, al miracolo della resurrezione della lingua, che non è certo fallita, ma ad un’altra questione essenziale.

Per molte generazioni di, per così dire, congelamento, l’ebraico è stato una lingua temima, nei due significati di questo termine, cioè ingenua e perfetta al tempo stesso. Essa non si è solo formata dall’immenso tesoro della letteratura degli ebrei, che è stato il suo terreno di crescita e la sua cassa di risonanza, ma così facendo ha continuato ad accrescere questo tesoro, che oggi viene chiamato “la libreria del popolo ebraico”, fino a raggiungere le dimensioni di una civiltà.

Questa è stata una lingua santa, la lingua segreta degli ebrei, nella quale parlavano con il loro Dio senza che nessuno capisse, una lingua che ai loro occhi era la Sua lingua privata, con la quale Egli aveva creato la luce, nella quale si consultava con i Suoi angeli e con la quale, un giorno, avrebbe risvegliato dalla morte i loro padri.

Rispetto alla lingua santa degli ebrei, la lingua israeliana che ci circonda è una lingua marcatamente laica, completamente staccata dal contesto religioso che è stato la sua fonte nel passato. Per coloro che la amano, questa è l’unica lingua importante, snella, flessuosa e attuale come una modella. Per i suoi detrattori, essa è una via di mezzo tra un dialetto locale dell’americano omnicomprensivo e l’esperanto, che permette una comunicazione interpersonale utile al livello dei bisogni essenziali.

Nel mezzo, tra la lingua della santità e quella israeliana, nell’arco di circa 150 anni è fiorita una lingua che diventava laica, una lingua di passaggio, una lingua che è per me la vetta della perfezione dell’ebraico. Questa è la lingua nella quale hanno creato dei giganti come Mendele e Brenner, Bialik e Agnon, Alterman, Shlonsky e Uri Tzvi Greenberg, Avot Yeshurun e Ratosh e Amir Gilboa, Guri e Amichai. Questa è una lingua che saltava con genialità tra il sacro e il profano, tra la fede e l’ateismo, tra il passato e il presente, tra il vecchio e il nuovo. Questo saltare creava dei giochi di specchi e di riflessi, rinvii e associazioni che destavano rispetto, e hanno creato ironia e potenza, raffinatezza e solennità, una crudeltà sottile e precisa, e una satira. L’intertestualità, il sistema di riferimenti, sono stati, a quanto pare, il più importante successo collettivo di questo periodo.

Adesso tutto questo va scomparendo velocemente: una lingua di passaggio, per quanto meravigliosa e ricca, non è altro che una lingua di passaggio, e il suo destino, purtroppo, è segnato. Se la lingua della santità è l’eterno classico dell’ebraico, e la lingua del presente è una lingua postmoderna, schizofrenica, lacerata, frantumata, una lingua da viedoclip, affannata e frettolosa, che non dialoga con il suo passato, ecco che allora quell’ebraico perduto è senza dubbio l’espressione più evidente dello spirito della modernità-umanista, realistica e costruttiva.

Con le mie parole tento di coinvolgere i miei lettori nei tentativi tristi e divertenti di un anacronista disilluso che vede in ogni libro e testo che scrive come una sorta di governo in esilio che agisce in segreto nella sua terra conquistata.

[Trad. dall’ebraico di Anna Linda Callow e Claudia Rosenzweig.

Pubblicato su autorizzazione dell’autore]