I postulati del ragionamento dei pacifisti

Il presupposto che Abu Mazen e Fatah vogliano la fine dell’occupazione potrebbe essere infondato: basta dare un’occhiata ai freddi interessi in gioco

Di Gadi Taub

Gadi Taub, autore di questo articolo

Gli algoritmi dei pacifisti, dentro e fuori Israele, comunque li si guardi danno per scontato il presupposto che il movimento Fatah in generale, e Abu Mazen in particolare, aspirino a porre termine a quella che chiamiamo “occupazione”, cioè all’amministrazione militare israeliana sugli arabi in Cisgiordania.

Questa è la base da cui conseguono tutti i loro calcoli. Forse però bisognerebbe ogni tanto analizzare questo assunto di fondo, dal momento che i palestinesi hanno rifiutato ogni realistica proposta volta a porre termine all’occupazione, senza mai proporre di loro iniziativa nessuna controfferta realistica. Ad eccezione ovviamente della pretesa che Israele commetta allegramente suicidio accettando quello che chiamano “il diritto al ritorno”.

Si può supporre, come fa normalmente la destra israeliana, che questo atteggiamento derivi da odio cieco, da una cultura che santifica la morte e in sostanza da una irrazionale sete di sangue. Non escludo questa ipotesi, che sembra avere un certo fondamento. Ma al di là di ciò, sarebbe opportuno considerare anche i freddi interessi in gioco, dai quali si potrebbe anche apprendere qualcosa sulla concreta possibilità che il regime di Abu Mazen possa mettere fine al conflitto israelo-palestinese.

Prima di tutto: se gli israeliani di centro e di sinistra hanno ragione quando affermano che un unico stato tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo significherebbe affogare il sionismo in un bi-nazionalismo (che ben presto diventerebbe un regime arabo), allora bisogna chiedersi perché mai Abu Mazen dovrebbe darsi da fare per salvare il sionismo?

Abu Mazen mostra una mappa dello “stato palestinese”: Israele è cancellato dalla carta geografica

E infatti, chi non si accontenta di basare le proprie valutazioni su una misera manciata di citazioni ben selezionate (del tipo, ”Abu Mazen in fondo ha lasciato intendere che non tornerà a Safed”), ha la netta impressione che i palestinesi non hanno affatto rinunciato al sogno di sradicare il sionismo. Hanno solo cambiato l’armamentario con cui sognano di farlo: non un’improvvisa apocalisse militare, ma un’onda demografica che si alza a poco a poco. Ovviamente, perché l’arma demografica sia efficace è necessario evitare che la terra venga divisa. Quindi, se finisse l’occupazione l’arma demografica risulterebbe disinnescata.

In secondo luogo, è del tutto evidente che un leader palestinese che rinunciasse al “diritto al ritorno”, vera e propria pietra angolare su cui si regge l’identità nazionale palestinese, verrebbe considerato un eretico. Può darsi che solo la fama e l’autorità di un Yasser Arafat avrebbero potuto permettergli di pilotare la pesante nave dell’ethos nazionale palestinese su una rotta diversa. Ma il rango di Abu Mazen fra i palestinesi è molto più basso. Tutto lascia intendere che una concessione su questo tema lo etichetterebbe in eterno come traditore, e funzionerebbe come una condanna a morte.

Abu Mazen ricevuto a Bruxelles da Federica Mogherini, alto rappresentante esteri dell’Unione Europea

In terzo luogo, si sa che quella traballante autocrazia che è l’Autorità Palestinese si regge grazie al sostegno delle Forze di Difesa israeliane. Accadono occasionalmente vari tipi di alleanze ad hoc con Hamas – un esempio è in corso in queste settimane –, ma derivano da un concorso temporaneo di circostanze. Difficilmente Abu Mazen potrebbe dimenticare cosa accadde agli uomini di Fatah a Gaza nel 2007 quando Hamas si sentiva forte a sufficienza. Per cui gli è del tutto chiaro che l’unica garanzia stabile di cui dispone per evitare ai suoi di essere di nuovo buttati giù dai tetti degli edifici con gli occhi bendati è proprio l’occupazione israeliana. Se Israele lasciasse la Cisgiordania, è praticamente certo che nel giro di poco tempo Hamas destituirebbe la corrotta Autorità Palestinese, e verosimilmente lo farebbe nello stesso modo barbaro con cui lo fece dieci anni fa nella striscia di Gaza.

In quarto luogo, la sopravvivenza materiale della dittatura di Fatah non dipende dallo sviluppo economico, cosa che ha sempre costantemente trascurato (tranne il breve periodo in cui primo ministro palestinese fu Salam Fayyad). Dipende piuttosto dagli aiuti forniti dal mondo all’Autorità Palestinese sulla base del fatto che i palestinesi continuano a essere nella condizione di “vittime dell’occupazione”: un enorme flusso di denaro destinato verosimilmente ad assottigliarsi molto il giorno in cui l’Autorità Palestinese si ritrovasse costretta a sostituire l’occupazione con l’indipendenza e il vittimismo con le responsabilità di governo.

Affinché gli algoritmi dei pacifisti, dentro e fuori Israele, continuino ad alimentare la speranza in un accordo di pace, bisogna presupporre: 1) che Abu Mazen intenda adoperarsi per salvare il sionismo; 2) che accetti di passare alla storia come il traditore del proprio popolo; 3) che rinunci al potere di cui dispone Fatah e infili spontaneamente il collo nel cappio del carnefice; 4) che rinunci allo status di vittime su cui fanno affidamento i palestinesi; 5) che cerchi di segare il ramo economico su cui è seduto.

Mi sembrerebbe un po’ troppo aspettarsi tutto questo anche da un grande leader, figuriamoci da un piccolo dittatore insignificante .

(Da: Ha’aretz, 19.10.17)