I rituali del processo di pace

La speranza è che un nuovo approccio da parte americana induca Abu Mazen a negoziare davvero, abbandonando l’illusoria strategia della delegittimazione internazionale d’Israele

Di Kenneth Bandler

Kenneth Bandler, autore di questo articolo

Indipendentemente da quel che sta accadendo nel mondo, ogni nuova amministrazione americana, poco dopo l’entrata in carica, si infila nel vortice del conflitto israelo-palestinese. La priorità data allo sforzo di promuovere la pace tra israeliani e palestinesi riflette l’importanza della regione negli interessi statunitensi, lo straordinario partenariato Usa-Israele e l’aspirazione dei presidenti di passare alla storia come gli artefici dell’inafferrabile traguardo di due stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza e, al di là di questo, del traguardo più ampio di una pace fra mondo arabo e Israele.

Che questo sia il momento giusto per cercare di rilanciare e portare a compimento il processo di pace in stallo è tutto da dimostrare. I presidenti Bill Clinton, George Bush e Barack Obama, ognuno con il proprio particolare approccio, hanno conosciuto ciclici momenti di progresso, ma anche molte cocenti delusioni e opportunità mancate. Ma tutti hanno riconosciuto, come pure le parti in causa, che nei decenni di sforzi per la pacificazione la leadership degli Stati Uniti nel promuovere i negoziati è stata essenziale, come lo sarà senza dubbio se e quando arriverà il momento di concludere un accordo definitivo.

A suo modo il presidente Donald Trump sta seguendo lo stesso percorso, facendo della pace israelo-palestinese uno dei più importanti obiettivi di politica estera. La recente visita del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) alla Casa Bianca è stata fondamentale per il rinnovato impegno degli Stati Uniti nel processo di pace, così come i precedenti incontri di Trump con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e con i leader degli unici due paesi arabi che hanno firmato trattati di pace con Israele: il presidente egiziano Abdel Fattah Sisi e re Abdullah di Giordania.

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ricevuto alla Casa Bianca dal presidente Usa Donald Trump lo scorso 3 maggio

Per Abu Mazen, recarsi in visita alla Casa Bianca è ormai una tradizione. Come ha ricordato lo stesso Trump, Abu Mazen era presente sul prato della Casa Bianca alla firma degli Accordi di Oslo nel 1993 E’ stato poi ricevuto regolarmente, con la sua ascesa alla guida dell’Autorità Palestinese dopo la morte di Yasser Arafat nel 2004. A sua volta, ha ricevuto a Ramallah sia il presidente Bush che il presidente Obama. Ciò nondimeno Abu Mazen, nel complesso, è stato più un ostacolo che un promotore della pace. L’ultimo tentativo americano di promuovere negoziati diretti israelo-palestinesi è naufragato nel 2014 quando Abu Mazen si è rifiutato di andare avanti. Poi ha ignorato le ripetute offerte di Netanyahu di riprendere i colloqui. Non ha trovato il tempo per incontrare il primo ministro israeliano nemmeno quando si è recato a Gerusalemme per i funerali di Shimon Peres, e non ha mai raccolto l’invito di parlare alla Knesset formulato da Netanyahu nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso settembre.

Al posto di tutto questo, Abu Mazen si è da tempo focalizzato su un percorso internazionale che proietta un’illusione di azione politica mentre in realtà, escludendo Israele, non contribuisce affatto ad avvicinare la popolazione palestinese all’indipendenza e alla pace. Ora che la Gran Bretagna ha rifiutato la richiesta di Abu Mazen di chiedere scusa per aver promulgato un secolo fa la Dichiarazione Balfour, l’Autorità Palestinese è tornata a minacciare di citare in giudizio il governo britannico. E da quando è diventata membro dell’Unesco, sei anni fa, si è energicamente adoperata con i paesi arabi per formulare e far passare risoluzioni il cui scopo è mettere in discussione il legame di Israele e, in modo più fondamentale, del popolo ebraico con Gerusalemme e la Terra d’Israele. Come si concilia questa strategia volta ad erodere la legittimità di Israele con il riconoscimento di Israele in quanto paese confinante e interlocutore per la pace?

Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen): “Non riconoscerò mai l’ebraicità dello stato o uno stato ebraico”

Prima della sua visita alla Casa Bianca, Abu Mazen ha cambiato tono dicendosi disposto a incontrare Netanyahu sotto il “patrocinio” di Trump. E ha pubblicamente intensificato le sue denunce contro Hamas, dichiarando che l’Autorità Palestinese smetterà di pagare le bollette elettriche per la striscia di Gaza. Naturalmente sa bene che, pur essendoci periodiche riduzioni di elettricità, è assai improbabile che Israele interrompa completamente le forniture o che riduca il trasferimento di materiale umanitario attraverso le frontiere (non l’ha mai fatto, nemmeno nei periodi di guerra aperta). L’assistenza israeliana resta fondamentale perché in gran parte i paesi arabi non hanno mantenuto l’impegno di aiutare Gaza che si erano assunti dopo la guerra di razzi, missili e tunnel scatenata da Hamas nell’estate 2014. Il fatto che Abu Mazen non abbia alcuna influenza sulla striscia di Gaza è stato confermato da una dichiarazione di Hamas dopo il suo incontrato con Trump. Il portavoce di Hamas a Gaza, Sami Abu Zuhri, si è affrettato a dichiarare: “Nessuno ha autorizzato Abu Mazen a rappresentare il popolo palestinese e nessuno è vincolato da nessuna delle posizioni che egli ha espresso”.

Dopo che Trump si è pubblicamente impegnato a cercare di rilanciare il processo di pace, si moltiplicano le ipotesi su quello che dirà il presidente Usa quando si recherà in visita in Israele e a Betlemme verso la fine di questo mese. Sarà cruciale che la politica e gli obiettivi statunitensi vengano espressi con chiarezza. Per promuovere il processo di pace Trump dovrebbe in primo luogo dichiarare chiaramente che gli Stati Uniti continuano a considerare i negoziati diretti e bilaterali israelo-palestinesi l’unico percorso concretamente possibile per arrivare a un accordo di pace complessivo. In secondo luogo, dovrebbe mettere in chiaro che la soluzione a due stati rimane l’esito previsto dei colloqui di pace. In questo contesto, tuttavia, prima o poi andrà affrontato lo status della striscia di Gaza: una cospicua porzione dell’ipotetico stato palestinese, che Israele ha consegnato all’Autorità Palestinese una dozzina di anni fa e che da dieci anni è sotto il totale controllo di Hamas. Con il suo nuovo documento politico, l’organizzazione terrorista islamista palestinese ha ribadito il rifiuto di riconoscere Israele.

In terzo luogo Trump, dando seguito a ciò che ha detto ad Abu Mazen alla Casa Bianca, dovrebbe esortare l’Autorità Palestinese a porre fine all’istigazione all’odio e alla violenza e cessare il pagamento di vitalizi ai terroristi, e dovrebbe incoraggiare il presidente palestinese ad adottare misure concrete per riformare i materiali educativi e i mass-media palestinesi affinché alimentino una vera cultura della pace. In quarto luogo, Trump dovrebbe affermare in modo inequivocabile che Gerusalemme è la capitale dello stato d’Israele, e a tal fine annunciare che l’ambasciata americana in Israele si trasferirà a Gerusalemme. Infine, dovrebbe incoraggiare i sauditi e gli altri stati del Golfo a intraprendere passi concreti per impegnarsi apertamente con Israele, e non solo cooperare dietro quinte nella lotta contro avversari regionali comuni. Potrebbero seguire l’esempio di ciò che fecero negli anni ’90 due stati membri del Golfo, che aprirono uffici commerciali in Israele migliorando le relazioni sotto molti aspetti.

I precedenti parlano da sé e l’amministrazione Usa non deve sottovalutare le sfide che la attendono. Lo ripetiamo, ostacoli simili erano già presenti quasi 25 anni fa, quando per la prima volta venero formulati i contorni di una pace possibile. Se oggi le parti sono disponibili, vale la pena tentare.

(Da: Jerusalem Post, 9.5.17)