I trattati di pace coi dittatori hanno durata limitata

Questo non è il momento per iniziative “audaci” né ritiri “sulle linee del ‘49”.

Di Moshe Arens

image_3212“Quando i fatti cambiano – disse una volta il grande economista John Maynard Keynes – io cambio la mia opinione; e voi?”. Ebbene, che piaccia o no, i fatti stanno cambiando. Dal Sinai egiziano, un paese che ha firmato un trattato di pace con Israele, cellule di terroristi si infiltrano in Israele per uccidere cittadini israeliani. E il governo egiziano, la giunta militare subentrata alla dittatura di Hosni Mubarak, non ha la volontà o la capacità di garantire la pace alla frontiera israelo-egiziana. E può ben darsi che seguano altri attentati terroristici provenienti dal Sinai.
I diamanti saranno anche per sempre, ma i trattati con i dittatori non lo sono di certo. Hanno durata limitata: durano finché dura la dittatura. E di questi tempi sono ben lungi dal durare “per sempre”.
Sono ormai trentaquattro anni che Israele ha accettato di restituire tutta la penisola del Sinai all’Egitto nel quadro dell’accordo di pace firmato da Menachem Begin e Anwar Sadat. Anche se molti non amano ricordarlo, Sadat era un dittatore. Il trattato di pace sopravvisse al suo assassinio, quattro anni dopo, quando venne sostituito da Mubarak. Se sopravvivrà anche alla caduta di Mubarak, al momento non è ancora chiaro.
Quando quel trattato venne stato firmato, i dittatori arabi erano considerati una caratteristica permanente del panorama mediorientale. Sembrava del tutto ovvio che Israele dovesse fare la pace coi dittatori arabi e che la formula per fare la pace con loro fosse “territori in cambio di pace”: cedere asset territoriali strategici in cambio della pace con un dittatore. Che la pace equivalesse a sicurezza era considerata praticamente una tautologia. I dittatori erano famosi per la loro capacità di imporre la propria volontà ai rispettivi popoli. Se vogliono far rispettare un trattato che hanno firmato, si può contare su di loro.
Come c’era da aspettarsi, Israele, che è una democrazia, ha accolto con favore la caduta delle dittature nei paesi vicini e ha visto con soddisfazione la “primavera araba” portare nuove libertà nel mondo arabo. Negli ultimi mesi, tuttavia, abbiamo dovuto constatare, con grande costernazione, che la caduta di dittatori arabi può portare con sé caos e anarchia, e la minaccia dell’ascesa al potere della Fratellanza Musulmana.
In una serie di occasioni, negli anni scorsi, diversi governi israeliani arrivarono molto vicini a stringere un accordo di pace con il dittatore siriano Hafez al-Assad, pronti a scambiare le alture del Golan in cambio di una pace con lui. Oggi possiamo dirci fortunati che un trattato di quel genere non sia mai stato firmato. Altrimenti oggi ciò che sta accadendo nel Sinai starebbe accadendo anche sulle alture del Golan.
Non abbiamo molta altra scelta se non attrezzarci per la continuazione di una situazione tutt’altro che piacevole, e sperare che chiunque governerà sull’Egitto negli anni a venire si attenga al trattato di pace con Israele, e si renda conto che mettere fine al caos nel Sinai è interesse comune di entrambi i paesi.
Ma la cosa più importante è capire che i fatti sul terreno tutt’attorno a noi stanno cambiando e che possono riservarci ulteriori cambiamenti. È tempo di riconsiderare le idee preconcette. Questo non è il momento di gettare al vento la cautela. Non è il momento per ritiri sulle linee armistiziali del 1949 [le cosiddette linee del ‘67]. Questo non è il momento per “iniziative politiche audaci”. È il momento di guardare e aspettare di vedere come le cose andranno a finire. È il momento di pensare come intendiamo garantire la sicurezza dei cittadini israeliani nella parte meridionale del paese contro i quotidiani lanci di razzi, e come garantire che quelli che vivono nel nord e nel centro del paese non finiscano nella stessa situazione. Il sistema anti-missili “Cupola di ferro” è una grande conquista tecnologica, ma da solo non può bastare.
(Da: Ha’aretz, 23.08.11)

“Che succederà quando i Fratelli Musulmani arriveranno – perché ci arriveranno – al governo? La politica egiziana sta uscendo dai suoi binari tradizionali e prima o poi la Fratellanza porrà la questione: che fare dei trattati con Israele? O si stracciano o si congelano: non c’è altra opzione”. Lo ha detto Mordechai Kedar, esperto di popoli arabi all’Università Bar-Ilan, al Corriere della Sera (22.8.11), ed ha aggiunto: “Gli islamici sanno di non essere pronti a una guerra con Israele e che la manutenzione dell’arsenale egiziano dipende dai dollari, dagli euro, dai rubli. Piuttosto, punteranno a rifornire d’armi Gaza. La giunta militare sostiene chi la piazza vuole che si sostenga. Nella società egiziana, l’odio per Israele è una cosa profondissima, che sconfina spesso nell’antisemitismo. La piazza vuole che Israele sia incenerito, nient’altro. E sarà la piazza a dettare l’agenda politica. Anche se il prossimo 20 settembre l’Onu votasse il nuovo stato palestinese, e Israele lo riconoscesse, che vuole che importi ai Fratelli Musulmani? Per loro, il problema non è un chilometro in più di terra: il punto è che Israele non deve esistere. Il messaggio viene ripetuto ogni settimana, nelle moschee egiziane. E nessuno lo contesta”.

Nelle foto in alto – Una scuola di Beer Sheva colpita da un razzo Qassam palestinese lo scorso 21 agosto. Manifestanti egiziani davanti all’ambasciata israeliana al Cairo; sul foglio: “Noi odiamo Israele”