Il cedro del Libano che mise radici a Rechavia

A proposito di Una città dai molti giorni, di Shulamit Hareven

Di Claudia Rosenzweig

image_1531Chi ha amato “Una pantera in cantina” di Amos Oz, e la sua autobiografia “Una storia di amore e di tenebra” (Feltrinelli), ritroverà la stessa Gerusalemme degli anni del Mandato Britannico, la stessa atmosfera di luci e di ombre, di dialogo e di tensione nel romanzo “Una città dai molti giorni” di Shulamith Hareven.
Apparso nel 1972, esso appare estremamente attuale al lettore di oggi. Si potrebbe dire che è un canto di amore, di nostalgia e di dolore per una città, Gerusalemme, qui descritta proprio nel momento in cui da città dell’Impero Ottomano si trasforma in città israeliana, in un processo che viene presentato inevitabile ma anche crudele. L’autrice, nata a Varsavia nel 1931 e giunta a Gerusalemme all’età di 10 anni, ha fatto parte della Haganà, ed è stata una dei fondatori del movimento pacifista israeliano Pace adesso.
Come nell’opera narrativa e saggistica di Amos Oz, torna spesso in questo romanzo il tema dei pericoli insiti nei movimenti ideologici e romantici, il tema della difesa della razionalità, della concretezza, dei sentimenti di amicizia tra individui a dispetto delle diversità religiose, etniche, politiche. Ed è questa diversità fremente di vita che viene colta nel momento del suo declino: la famiglia sefardita degli Amarillos; il professor Barzel, di origine tedesca; Suvchy Bay, il patriarca di una famiglia araba musulmana; la suora Thérèse, dedita ad assistere i poveri e i derelitti di Gerusalemme; Tony Crowther, ufficiale dell’Esercito di Sua Maestà, innamorato a tal punto della città da rinunciare alla carriera militare pur di restarvi… La Guerra d’Indipendenza costringerà tutti a prendere posizione, e costringerà Sara Amarillos, la figura dominante del romanzo, a mettere da parte se stessa e il suo passato per abbandonarsi al flusso del cambiamento, per accettare un presente diverso, nuovo, per osservare «la luce morbida come vello di agnello», per «respirare la montagna e la luce» (p. 217). Il cedro del Libano che il dottor Barzel si era ostinato a voler piantare nel suo giardino di casa, nel quartiere di Rechavia, attecchirà e crescerà (pp. 77-78).
Di più non si deve svelare. Il romanzo è avvincente e leggibilissimo, e al tempo stesso denso e capace di destare riflessioni sulla storia di quegli anni, e sulla storia attuale. Sotto allo stile limpido e scorrevole della scrittura, si avverte la voce onesta, disincantata e coraggiosa di una scrittrice che per tutta la vita ha combattuto contro il mito, a favore degli esseri umani.

Shulamit Hareven, Una città dai molti giorni, trad. di Rosanella Volponi, Giuntina, Firenze 2006.

Della stessa autrice in traduzione italiana:
Crepuscolo, in Rose d’Israele. Racconti di scrittrici israeliane, trad. di S. Kaminski e E. Loewenthal, e/o, Roma 1993, pp. 7-16.
Sete ovvero Trilogia del deserto, trad. di E. Loewenthal, Neri Pozza, Vicenza 1998.
Il testimone, in Racconti da Israele, a cura di Gabriella Steindler Moscati, Mondadori, Milano 1993, pp. 42-77, trad. di S. Kaminski e E. Loewenthal.