Il club a cui nessuno vorrebbe appartenere

Come ogni anno, Israele ricorda i suoi caduti il giorno prima di festeggiare l’anniversario dell’indipendenza

Di Pnina Weiss

image_3417Crescendo, sono sempre stata membro di questo o quel club: club di computer, club di scacchi, comitati studenteschi e altre varie organizzazioni che mi facevano sentire associata, davvero “una del gruppo”. Più delle attività del club in sé, erano le amicizie e il cameratismo del gruppo che mi mantenevano attiva. Poi improvvisamente, circa dieci anni fa, sono entrata a far parte di un club a cui mai avrei voluto né immaginato di iscrivermi: il club dei parenti dei caduti.
Da quel terribile giorno in cui bussarono alla porta per informare la mia famiglia che mio fratello Ari, sergente nell’unità anti-terrorismo della brigata Palchan, era stato ucciso in battaglia, tutt’a un tratto ho scoperto di appartenere a una nuova compagnia, una compagnia da cui non potrò mai più andarmene.
I membri del nostro club sono sparsi un po’ dappertutto e appartengono a ogni settore della società: ricchi e poveri, sefarditi e askenaziti, nativi e immigrati. Generalmente passano inosservati, mescolati alla popolazione generale. Ma gli altri membri del club sanno individuarli. Sono quelli che se ne stanno un po’ in disparte, al matrimonio di un amico, sperando di non essere notati e versano una lacrima al pensiero del loro congiunto che non potrà mai sposarsi o crescere dei figli. Sono quelli che soffocano un singhiozzo, mentre accendono le candele del Sabato, al ricordo dei bei tempi quando l’intera famiglia sedeva attorno alla tavola imbandita per Shabbat. Sono quelli che si fermano sui propri passi, mentre fanno la spesa al supermercato, restando a fissare le yahrtzeit, le candeline della memoria della tradizione ebraica. […]
Per quanto possa essere triste, tutto questo fa parte della vita in Israele. Fa parte dei sacrifici che dobbiamo fare per poter vivere liberi nel nostro paese; e i sacrifici sono parte della vita ebraica sin dagli albori della nostra storia. Le persone che vivono in Israele lo capiscono, giacché qui siamo una sola famiglia e il dolore lo sentiamo tutti.
Per favore, non mi si fraintenda. Gli ebrei della Diaspora sono meravigliosi, e hanno dato un enorme sostegno a me e alla mia famiglia nel corso di questi ultimi dieci anni. Ma in questo giorno le persone a cui desidero davvero tenere la mano sono quelle che siedono al mio fianco. Quelle le cui famiglie corrono nei rifugi nel mezzo della notte, quelle che ascoltano le tristi musiche di Yom HaZikaron (il giorno dei caduti) per ricordare coloro che non sono più con noi. Tra di noi comunichiamo senza parole, ci basta uno sguardo e sappiamo cosa l’altro sta pensando e cosa sta provando.
Ogni israeliano ha una storia avvincente che merita d’essere ascoltata. Non tutte hanno un bel lieto fine, ma quando le metti tutte assieme costituiscono ciò che fa di Israele la straordinaria nazione che è. La vita non ci si aspettava che fosse facile, qui, e il più delle volte le durezze che devi attraversare ti fanno apprezzare ciò che è davvero importante, e ciò che non deve mai essere dato per scontato.
Anche se mi vengono ancora le lacrime agli occhi quando vedo i soldati scendere da un autobus il venerdì prima di Shabbat, e faccio ancora fatica a superare quel repentino passaggio tutto israeliano dalla profonda mestizia di Yom HaZikaron allo scoppio di gioia di Yom HaAtzma’ut (la giornata dell’indipendenza), non posso immaginare la mia casa in un posto diversa da questo.
Spero solo, e prego, che presto vengano chiuse le iscrizioni al triste club di sono entrata a far parte dieci anni fa.

(Da: Jerusalem Post, 23.4.12)

Nelle foto in alto: Ari Weiss, ucciso nel settembre 2002 all’età di 21 anni, nei pressi di un edificio di Nablus (Cisgiordania) utilizzato come base operativa da Hamas. Nello stesso scontro a fuoco rimase ferito e paralizzato dalla vita in giù l’amico di Ari, Shai. Sotto: la sorella di Ari, Pnina Weiss, autrice di questo articolo.

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