Il colto e pacato intellettuale di grido, e i suoi pregiudizi

A proposito di alcuni articoli di Sergio Romano su ebraismo e Stato di Israele

M. Paganoni per Nes n. 3, anno 17 - marzo 2005

image_617“Nel corso della storia – scrive Piero Stefani(1) – l’ebraismo si è presentato anche come un sistema religioso contraddistinto da una serie specifica di comportamenti e convinzioni. Ma il popolo ebraico costituisce pure una collettività entro cui si viene all’esistenza. […] Per chi è nato ebreo vi sono, specie in epoca contemporanea, molti modi per affermare o ricercare la propria identità. Essi vanno dal pieno accoglimento della prassi e della fede tradizionali, a forme di adesione più laiche, culturali, affettive, psicologiche e così via. […] Risulta perciò molto improprio e riduttivo presentare l’ebraismo nei termini di una pura adesione personale a determinati dettami religiosi”.
Per quanto improprio, è esattamente ciò che fa Sergio Romano quando scrive(2), e ribadisce(3), che “Israele è lo Stato degli ebrei, fondato su una rivelazione religiosa”. Solo costringendo gli ebrei nei panni stretti di un’identità meramente religiosa si può arrivare – con qualche sforzo – a paragonare le fondamenta di Israele a quelle dell’Arabia Saudita, “uno Stato, quest’ultimo, che fonda la propria legittimità su una missione politico religiosa”(4). Insomma, uno Stato fondamentalista.
Eppure, come sappiamo, “anche la definizione più tradizionale di ebraismo non si è mai limitata a presentarlo come un insieme di prassi e di convinzioni di natura strettamente religiosa. Nel corso dei secoli l’autodefinizione ebraica si è articolata soprattutto in relazione a tre grandi ambiti: Torà (parola con cui in sostanza ci si riferisce alla totalità della rivelazione divina), popolo e terra d’Israele. La complessità di questo intreccio mostra da sola la presenza, accanto a tratti di natura religiosa, di altre componenti che la visione moderna chiamerebbe piuttosto di tipo culturale, sociale e persino politico”(5).
Certo, per cogliere le “altre componenti” bisogna avere l’umiltà d’accettare la definizione di sé che danno gli ebrei, anziché appiccicare loro addosso quella che più conviene al nostro ragionamento. Ma forse è proprio questa umiltà che fa difetto. Non a caso, come ricorda Piero Stefani, le varie forme di ostilità anti-ebraica “si scagliano, assolutizzandolo, contro uno dei tre corni della triade che definisce la realtà ebraica”. L’antigiudaismo cristiano insisteva sull’aspetto religioso: l’ebreo buono era quello che si convertiva. L’antisemitismo otto-novecentesco si focalizzava sul “popolo”, dapprima contestando che gli ebrei potessero definirsi tali senza rappresentare una minaccia per gli stati nazionali, poi giungendo a etichettarli come una “razza” priva addirittura del diritto di esistere. Infine, l’antisionismo “appunta i propri strali sul polo costituito dalla terra, sostenendo che non esiste alcuna componente che legittimi la trascrizione politica del legame tra il popolo ebraico e la terra d’Israele”(6), negando dunque che gli ebrei costituiscano anche una nazione e possano perciò rivendicare diritti di autodeterminazione. “L’antisionismo contemporaneo si dispiega quando si contesta alla collettività ebraica il diritto di avere un preciso riscontro di natura politica e territoriale”(7), e si taccia di fondamentalismo religioso o addirittura di teocrazia la pretesa di esercitare tale diritto.
È operazione parallela a quella di chi appiccica agli ebrei l’etichetta di “razza” per poi accusare lo Stato degli ebrei di essere fondato sul razzismo. O sul principio del sangue, per dirla con le parole di Sergio Romano.
Se invece si fa lo sforzo di accogliere la o le definizioni di sé che danno gli stessi ebrei, e dunque come di un gruppo umano dotato anche ed eventualmente di sentimenti nazionali, cioè un popolo, un insieme di persone unite da comunanza di origine, di storia ed esperienze, da un patrimonio di civiltà lingua e tradizioni, un insieme consapevole – e da tempo immemorabile – di una propria peculiarità ed autonomia culturale intesa anche ed eventualmente come premessa di sovranità politica, ecco allora che uno Stato non “ebraico” bensì “degli ebrei” (il laico Judenstaat di Theodor Herzl) appare cosa normale e conseguente alla coscienza dell’uomo moderno. Uno Stato come tutti gli altri, che non ha da esibire patenti di legittimità.
Ma gli ebrei, continua Sergio Romano, “rivendicano un titolo di proprietà imprescrittibile: le parole con cui Dio dette a Mosè la Terra promessa”. Per la verità la Dichiarazione di Indipendenza d’Israele parla della terra dove “è nato il popolo ebraico”, dove “si è formata la sua identità spirituale, religiosa e politica”, dove “ha vissuto una vita indipendente e ha creato valori culturali con portata nazionale e universale”; parla di un “attaccamento storico e tradizionale” e di un’antica aspirazione al “ripristino in essa della libertà politica”; parla di “generazioni che sono tornate in massa, costruendo villaggi e città e creando una comunità in crescita, che controlla la propria economia e la propria cultura”; parla di un diritto del popolo ebraico sancito dalla Società delle Nazioni e dalle Nazioni Unite; parla della necessità, dopo la Shoà, di “spalancare le porte della patria a ogni ebreo”; parla del “contributo dato dalla comunità ebraica di questo paese” alla lotta contro nazismo e fascismo; parla del “diritto naturale del popolo ebraico a essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio Stato sovrano”. Non parla di promesse divine.
Ma Israele, insiste Sergio Romano, “rappresenta, rispetto agli Stati moderni, una creazione in controtendenza. Mentre gli altri sono Stati della cittadinanza, composti da donne e uomini di origini e credenze religiose diverse, uniti soltanto da vincoli civili e costituzionali, Israele è uno Stato nazionalreligioso. Mentre la legittimità degli altri è fondata sulla Costituzione, quella di Israele è fondata sui principi del romanticismo politico tedesco: la terra e il sangue”.
Diagnosi assai curiosa. È vero, i legami di appartenenza nazionale non sono tutti uguali, a dispetto del fatto che spesso simboli e manifestazioni esteriori appaiano identici (l’amor di patria, la bandiera ecc.). Una cosa è il vincolo di cittadinanza storicamente sviluppatosi in Europa occidentale, caratterizzato dal “contratto quotidiano” che lega liberi cittadini alle istituzioni dello Stato in quanto garante di libertà e sicurezza, un vincolo che prescinde dall’appartenenza etnica o religiosa dei singoli individui e che dunque è tendenzialmente aperto (e che non a caso è tipico di paesi forgiati nell’immigrazione, come gli Stati Uniti). Altra cosa è il nazionalismo nato in Europa centro-orientale, fondato sull’esclusiva identità etnico-linguistica, un nazionalismo cui si appartiene per destino di nascita, più sudditi che cittadini, e in nome del quale si può essere chiamati ad immolare se stessi senza reale contropartita, un nazionalismo che aspira irresistibilmente a far coincidere lingua, etnia e territorio e ad escludere, espellere, persino eliminare ogni minoranza di altra etnia o lingua o religione che malauguratamente si trovasse entro il suo perimetro territoriale. Così il pangermanesimo trovava naturale riunire sotto un unico Reich tutte le popolazioni parlanti tedesco, a costo di usare le maniere forti. Così il panarabismo trova ancora oggi intollerabile che minoranze di vario tipo (non arabe e/o non islamiche) aspirino ad esercitare forme di autogoverno su porzioni anche marginali di “terra araba”. Giacché infatti, come ricorda Bernard Lewis, nel Medio Oriente arabo-islamico “l’influenza del nazionalismo di tipo centroeuropeo ed esteuropeo fu molto maggiore di quella del patriottismo di tipo europeo occidentale”(8). Motivo per cui si spiegano, fra l’altro, l’alleanza ideologica e non meramente tattica fra nazionalismo panarabo e nazionalsocialismo tedesco; la costante e coerente repressione da parte del nazionalismo panarabo di ogni aspirazione d’autonomia anche solo linguistica, per non dire politica, delle minoranze all’interno delle “terre arabe”; nonché, last but not least, il rifiuto durato cent’anni (e ancor oggi duro a morire) dell’indipendenza ebraica anche solo su una parte di Palestina. E si spiega perché il nazionalismo panarabo nel 1948 perseguì (e ancora persegue) la completa “pulizia etnica” dei pezzi di Palestina sotto il suo controllo, mentre diventavano cittadini d’Israele arabi, circassi, drusi, armeni, beduini. Ecco perché appare assai curioso attribuire a Israele proprio quei principi esclusivi di cittadinanza etnica che stanno all’origine di buona parte dell’ostilità dispiegata per decenni contro Israele.
E lo Stato ebraico “nazionalreligioso”? Si consideri, per quel che vale, la modesta esperienza di chi scrive. Sono nato in Israele, da genitori cattolici italiani che mi fecero battezzare nella chiesa di Stella Maris, sul Carmelo. Sin dalla nascita l’Italia, in virtù dello jus sanguinis, mi ha considerato italiano perché nato da genitori italiani (a proposito di nazionalismo del sangue…). Oggi però, quando mi reco in Israele, mi accade spesso alla frontiera che qualche solerte poliziotta addetta al controllo passaporti mi ingiunga di esibire i documenti di cittadinanza israeliana (che non ho). In genere non si accontenta delle mie spiegazioni e decide di procedere a lunghi controlli sui database del ministero degli interni. E non ha torto, giacché per la legge israeliana io potrei essere cittadino israeliano per il semplice fatto d’essere nato nel territorio dello Stato, anche se figlio di italiani e battezzato cattolico. Ma ora so come fare. Terrò in tasca l’articolo di Sergio Romano e la prossima volta che la poliziotta mi fermerà, lo sventolerò esclamando: “Ma come, agente, lei non sa che lo Stato d’Israele si colloca a metà fra la Germania tribale e l’Arabia fondamentalista?”

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1) Stefani Piero, Gli ebrei, Il Mulino, 1997, pp.11-12.
2) Romano Sergio, “Terra e sangue: la doppia legittimità dello Stato d’Israele”, in: Corriere della Sera, 24.02.2005.
3) Romano Sergio, “Hezbollah, Israele, ebraismo: un risposta dovuta”, in: Corriere della Sera, 3.03.2005.
4) Romano Sergio, “Terra e sangue: la doppia legittimità dello Stato d’Israele”, in: Corriere della Sera, 24.02.2005
5) Stefani Piero, Gli ebrei, Il Mulino, 1997, pp.18.
6) Stefani Piero, Gli ebrei, Il Mulino, 1997, pp.21-22.
7) Stefani Piero, Gli ebrei, Il Mulino, 1997, pp.21.
8) Lewis Bernard, Il suicidio dell’islam, Mondatori, 2002, p.51.

Nella foto in alto: il testo originale della Dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele.