Il coraggio di abbandonare pozioni obsolete

Già da tempo la diplomazia internazionale avrebbe dovuto abbandonare l’utopia dell’internazionalizzazione di Gerusalemme

Di Abraham Ben-Zvi

Abraham Ben-Zvi, autore di questo articolo

Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le voci circa la possibilità che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump possa presto riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele. Nonostante, o forse propria a causa della sua mancanza di esperienza nell’arena internazionale, Trump sembra disposto a ribaltare quello che per anni è stato un assioma centrale della diplomazia americana.

Tutto è iniziato con l’aderenza ossessiva al piano di spartizione dettagliato nella risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’Onu del 29 novembre 1947. Tra le altre cose, la risoluzione prevedeva l’internazionalizzazione di Gerusalemme e la sua gestione da parte delle Nazioni Unite (per un periodo di dieci anni, dopodiché le sorti della città sarebbero state decise con un referendum fra la sua popolazione). Questa parte del piano avrebbe dovuto decadere subito dopo l’aggressione della Legione Araba di Giordania, che occupò la parte est della città, e la strenua difesa israeliana della parte ovest durante la guerra d’indipendenza del 1948. Invece, l’idea astratta dell’internazionalizzazione ha continuato a forgiare il pensiero americano fino alla guerra dei sei giorni del 1967. L’aderenza acritica a quell’aspetto del piano costrinse i decisori politici a ignorare – talvolta con effetti grotteschi – la realtà dei fatti sul terreno, assai lontana dall’utopia.

Gerusalemme divisa dall’occupazione giordana della parte est della città nel periodo 1948-1967

L’idea che la questione di Gerusalemme dovesse essere risolta solo nel quadro di un accordo sullo status permanente tra israeliani e palestinesi è rimasta un chiodo fisso nella politica estera americana fino ai nostri giorni, nonostante il clamoroso fallimento del summit di Camp David dell’estate 2000 quando i palestinesi rifiutarono l’offerta dell’allora primo ministro israeliano Ehud Barak che si era detto disposto, tra le altre cose, a suddividere la Città Vecchia di Gerusalemme, oltrepassando i limiti che erano stati fino ad allora preservati da ogni governo israeliano che lo aveva preceduto. E così, mentre il rifiuto palestinese al vertice di Camp David faceva affondare ogni possibilità di promuovere un accordo su Gerusalemme, i diplomatici americani continuavano ad aspettare Godot.

Con una scelta che rispecchiava i sentimenti di un’ampia parte della società americana, nel novembre 1995 il Congresso approvò una legge che richiedeva all’amministrazione di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele e trasferirvi l’ambasciata degli Stati Uniti. Ma la legge non è bastata a mutare l’approccio tradizionale dei presidenti americani che si sono da allora succeduti, e che ne hanno tutti invariabilmente congelato l’attuazione firmando ogni sei mesi tale decisione in base a considerazioni di opportunità politica. Questo approccio sta forse per cambiare definitivamente, sulla scorta delle mutevoli circostanze nella regione. In effetti, i rivolgimenti all’interno del campo sunnita, frutto della crescente minaccia iraniana, uniti a quella che appare la volontà dell’Arabia Saudita di venire allo scoperto e cooperare con Israele sul fronte strategico, potrebbero trasformare la nuova posizione americana su Gerusalemme nel catalizzatore di una vera svolta regionale: un’eventualità che potrebbe mettere in ombra i rischi di un aumento del livello di tensioni.

(Da: Israel HaYom, 3.12.17)

Prima del ’67 la Gerusalemme israeliana (in azzurro nella mappa) era circondata su tre lati dal territorio sotto occupazione giordana