Il crescente isolamento di Israele: un mito duro a morire

Gli appelli per il boicottaggio sono striduli e rumorosi, ma le scelte concrete parlano più forte delle parole e raccontano un'altra storia

Di David Rosenberg

David Rosenberg, autore di questo articolo

Due fatti recenti sembrano fatti apposta per illustrare il complicato rapporto fra Israele e l’Europa, come peraltro con il resto del mondo.

A fine marzo, un gruppo di ambasciatori dell’Unione Europea ha incontrato il nuovo Direttore generale del Ministero degli esteri israeliano e hanno rilasciato una dichiarazione di severa condanna della demolizione di case palestinesi (abusive) in Cisgiordania. Il che ha trasformato quello che doveva essere un incontro per fare reciproca conoscenza in una accesa discussione. Come altre volte, Israele si è ritrovato sul banco degli imputati costretto a difendersi e protestare con veemenza. Quasi contemporaneamente, Israele e una delegazione di governi dell’Unione Europea sottoscrivevano un piano da 6,4 miliardi di dollari per la costruzione congiunta di un gasdotto che porterà in Europa il gas naturale dei pozzi off-shore israeliani e ciprioti. Può anche darsi che l’accordo non si realizzi davvero, ma certamente indica la disponibilità da parte dell’Europa a fare grandi affari con Israele e ad assumere con Israele impegni economici a lungo termine.

Cosa se ne deve dedurre? Che Israele è sempre più isolato sul piano internazionale dal momento che l’Europa e la comunità internazionale moltiplicano le loro accuse e condanne per le sue politiche relative all’occupazione? Oppure che Israele è un membro benaccetto della comunità internazionale, allettata dalle sue performance in fatto di alta tecnologia, oltre che dai suoi nuovi giacimenti di gas naturale? In realtà, isolamento e coinvolgimento si verificano contemporaneamente. La vera domanda da porsi, dunque, è quale delle due tendenze sia la più rilevante.

Proviamo ad esaminare una serie di istituzioni internazionali in base a due variabili che definiremo il volume dell’audio (quanta attenzione ricevono) e la forza motrice (quanto sono in grado effettivamente di far accadere le cose). Il volume influenza il modo in cui percepiamo le cose mentre la forza motrice è di solito quella che conta veramente.

Governi. Il volume è dato da quanta attenzione si presta a ciò che un determinato paese sta facendo. Ne consegue che le democrazie occidentali, con la loro stampa libera e la tumultuosa polemica politica, attirano molta attenzione. Tutti seguono quello che accade a Washington, mentre nessuno ha idea di cosa accada nei chiusi corridoi di Pechino. Ma questa differenza di volume non corrisponde necessariamente all’influenza reale sulle cose, che si misura sulla volontà e capacità di utilizzare la forza diplomatica, economica e militare per ottenere quello che si vuole. Mentre l’Europa parla molto, la Cina allunga i suoi tentacoli economici in tutto il mondo. In base ad entrambi i parametri, l’America resta la numero uno, anche nell’era Obama-Trump del disimpegno globale. L’Europa è la numero due in termini di volume, ma l’effettiva forza motrice è parecchio indietro finché non ha una voce diplomatica o militare unitaria in grado di far valere il suo punto di vista. La Cina tiene basso il volume, ma la sua forza economica da sola la rende molto probabilmente la vera potenza numero due. Lo stesso vale per India e potenze emergenti dell’Asia. In conclusione: la freddezza europea verso Israele riceve molta attenzione, ma ha poca sostanza. Cina & Co., nel frattempo, stanno sommessamente migliorando i loro rapporti con Israele, mentre l’America rimane sostanzialmente fedele alla propria storia. Nel complesso, non c’è motivo di ritenere che Israele sia sempre più isolato.

Business. Come dimostra l’accordo sul gasdotto, in ogni caso l’ostilità dell’Europa verso Israele sul piano politico non si estende al mondo degli affari. L’Unione Europea commercia felicemente con Israele, investe in società israeliane e gli riconosce uno status preferenziale nei programmi scientifici. Di regola quella del business è un’attività a basso volume ed alta forza motrice. Per ogni evento che fa rumore, come l’acquisizione da 15 miliardi di dollari della Mobileye da parte di Intel, centinaia di altri affari vengono raggiunti con poca copertura mediatica al di là della stampa specializzata o di qualche trafiletto nelle sezioni economiche dei grandi giornali. Ma si tratta di soldi veri e di impegni concreti per il settore economico di volta in volta interessato. In conclusione: con gli investimenti diretti stranieri in Israele che l’anno scorso hanno toccato la cifra record di 12,4 miliardi di dollari, quasi tutti lontani dai riflettori, i legami di Israele con il mondo delle imprese sono più forti che mai.

4 aprile 2017: firma dell’accordo fra Israele, Italia, Grecia e Cipro per la realizzazione del gasdotto sottomarino dal Mediterraneo orientale all’Europa meridionale

Mass-media. E’ il volume-audio per eccellenza, ma per quanto riguarda la reale forza di traino è più che mai simile a un vecchio ronzino. Se i mass-media fossero davvero così influenti, non avremmo Trump né la Brexit né Netanyahu (il che porta a chiedersi come mai i politici siamo così ossessionati dall’idea di controllare i mass-media). Complessivamente il mondo dei mass-media è ostile a Israele o, nel migliore dei casi, dà eccessiva copertura a quanto di negativo possa essere attribuito a Israele. Ma questo diventa un vero problema solo quando Israele sta effettivamente combattendo una guerra aperta. In tempi normali, gli attriti e i contrasti che accompagnato giorno per giorno l’occupazione non interessano granché la maggior parte della gente, soprattutto quando le vere tragedie si consumano in altre parti del Medio Oriente. Cosa possono essere poche case demolite su ordine del tribunale in Cisgiordania rispetto alla devastazione di Aleppo? Questo non giustifica qualunque cosa faccia Israele, ma certamente significa che non andrà incontro allo stesso tipo di riprovazione di un tempo: la storia è andata avanti. In conclusione: Israele non ha conquistato la simpatia dei mass-media, ma ha parzialmente perso la loro ossessiva attenzione, quindi non è messo poi tanto male su questo versante.

Ong, Chiese, campus universitari. Il volume dell’audio è alto e stridulo, ma la capacità di incidere sulle cose è prossima a zero. I consigli studenteschi amano approvare roboanti risoluzioni pro-BDS (boicottaggio contro Israele), ma nessun consiglio di gestione li ha mai assecondati per cui, dal punto di vista pratico, significano poco. Anche le principali Chiese in America e le Chiese protestanti presenti in Europa non amano Israele più di tanto, ma vi sono masse di religiosi cristiani in tutto il mondo che guardano positivamente a Israele e, sebbene ottengano meno attenzione mediatica, rappresentano di gran lunga la maggioranza dei cristiani più impegnati. Le Ong sono più critiche, ma sono per lo più impotenti se mass-media e governi non danno seguito alle loro critiche, cosa che spesso non accade. È interessante notare che tutti e tre questi gruppi rappresentano il soft-power: la capacità di influenzare l’opinione pubblica, che alcuni ritengono altrettanto se non più importante dei vecchi strumenti della diplomazia e delle armi. Ma non è così. Si guardi alla Siria: le condanne della violenza e delle violazioni dei diritti umani non hanno minimamente contribuito ad arginare o porre fine alla guerra civile. Quello che ha modificato le cose sul terreno, nella misura in cui si sono modificate, è stata la decisione della Russia (e poi degli Stati Uniti) di fare ricorso a un bel po’ di hard-power vecchio stile. In conclusione: certamente Israele non se la cava bene sul fronte del soft-power, che agita il governo a non finire, ma è facile che si tenta ad esagerare la sua importanza per via della suo volume così alto. Bisognerebbe non darle troppo ascolto.

(Da: Ha’aretz, 4.4.17)