Il diavolo nei dettagli

Uno degli errori più diffusi è credere che "l'accordo in pratica è già fatto"

Da un articolo di Evelyn Gordon

image_1958Uno degli errori più diffusi sui negoziati israelo-palestinesi è la convinzione secondo cui “tutti sanno già come sarà l’accordo finale”, e che l’unica cosa che occorre è che le parti si siedano finalmente a firmarlo. Come diceva a novembre un editoriale del New York Times, “la questione non è tanto come sarà la pace, ma piuttosto se i leader avranno il coraggio politico di prendere le decisioni che occorrono e andare avanti. I contorni a grandi linee dell’accordo sono evidenti sin da quando il presidente Clinton stese i suoi punti alla fine del 2000”. In modo analogo Ha’aretz dichiarava, in un titolo di prima pagina dello scorso dicembre, che già nei colloqui di Taba dell’inizio del 2001 vennero raggiunti “spettacolari accordi sui nodi di fondo”.
Il presupposto che sta dietro a queste affermazioni è che i dettagli non siano poi così importanti, e che possano essere facilmente risolti. Si scopre invece che, in questo caso, i dettagli sono le questioni più importanti, e le dispute attorno ai “dettagli” rivelano che in effetti nulla è stato finora veramente concordato.
Il servizio di Ha’aretz, ad esempio, citava diversi “spettacolari”punti d’accordo da una sintesi dei colloqui di Taba approntata dopo il loro fallimento dal negoziatore israeliano Gilad Sher. Dalla sintesi risulta che le parti avevano concordato “aggiustamenti” del confine pre-‘67 che “rispondessero alle esigenze demografiche di Israele”, una divisione di Gerusalemme per farne la capitale di due stati, e una “soluzione equilibrata” del problema dei profughi con i palestinesi “pronti a fare mostra di sensibilità” su questo punto. Sembrano effettivamente dei progressi, almeno finché non si esaminano i dettagli del documento Sher.
Si scopre allora che, se anche i palestinesi accettarono scambi territoriali in linea di principio, tuttavia si rifiutano di concedere qualunque specifico territorio chiesto da Israele. Si opposero all’idea che Israele trattenesse i maggiori blocchi di insediamenti – una delle principali ragioni per cui Israele poneva la permuta di territori – e in generale insistettero che qualunque scambio di territorio non superasse il 2% della Cisgiordania, vale a dire molto meno del 6-8% necessario per compensare i maggiori blocchi di insediamenti. In breve, non ci fu nessun accordo su alcuna concreta questione di confine: ci fu soltanto una bella affermazione di principio.
Lo stesso su Gerusalemme. Vi fu una bella affermazione di principio circa la divisione della città, ma nessun accordo su come farlo concretamente. Israele voleva la contiguità territoriale fra i vari quartieri ebraici della città, il che avrebbe trasformato i quartieri palestinesi in enclave; i palestinesi volevano contiguità territoriale palestinese ed enclave ebraiche. Né fu raggiunto alcun accordo su come garantire la sicurezza di questo patchwork da incubo. Infine, non vi fu nessun accordo sulla questione del Monte del Tempio: i palestinesi insistevano che il Monte fosse interamente loro, senza che Israele esercitasse diritti di nessun tipo sul luogo più santo per l’ebraismo.
Per quanto riguarda i profughi, si scopre che la “sensibilità” palestinese non comprendeva la rinuncia al cosiddetto “diritto al ritorno”, un “diritto all’invasione” totalmente inaccettabile per Israele. Chiedevano anzi il riconoscimento del “diritto” di tutti i profughi e loro discendenti a stabilirsi in Israele. La loro “sensibilità” non comprendeva nemmeno la questione della responsabilità. Mentre Israele accettava una parziale assunzione di responsabilità per il problema dei profughi, i palestinesi insistevano che si assumesse tutta la responsabilità: una chiara distorsione della realtà storica, dal momento che non vi sarebbe stata nessuna crisi di profughi se gli eserciti arabi, affiancati dagli irregolari palestinesi, non avessero aggredito il nascente stato di Israele nel 1948.
Né vi fu alcun accordo sulla questione forse più essenziale di tutte: il riconoscimento da parte palestinese del diritto del popolo ebraico ad avere un proprio stato sovrano in questa terra, parallelo al riconoscimento da parte di Israele del diritto dei palestinesi all’indipendenza. Questo rifiuto non è puramente retorico: ne consegue che i palestinesi, anziché accettare di vivere in pace a fianco dello stato ebraico, intendono continuare a perseguire il suo annichilimento.
Inutile dire che queste posizioni dei palestinesi non sono cambiate di una virgola dal 2001 a oggi. Poco prima della conferenza di Annapolis dello scorso novembre, lo stesso presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ribadì che gli scambi di territorio non potranno eccedere il 2,3% della Cisgiordania, e ribadì il rifiuto palestinese di riconoscere qualunque diritto ebraico sul Monte del Tempio. Ed ad Annapolis, Abu Mazen ribadì che qualunque soluzione dovrà fondarsi sulla risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’Onu, che i palestinesi interpretano come una consacrazione del cosiddetto “diritto al ritorno”.
Di fronte a tutto questo, un osservatore estraneo potrebbe stupirsi per la persistenza del mito secondo cui “tutti sanno già come sarà l’accordo finale”. Invece, chiunque abbia familiarità con questo conflitto sa che su questo punto i desideri spesso fanno premio sulla ragione: poiché la comunità internazionale e parte del mondo politico israeliano vogliono disperatamente credere che un accordo è sicuramente raggiungibile, preferiscono ignorare tutte le prove del contrario. Purtroppo, però, si tratta di una ricetta che garantisce che il conflitto non finisca mai: infatti, fino a quando non verranno risolti questi problemi, non vi sarà alcun accordo. E risolvere qualunque problema significa innanzitutto ammettere che il problema esiste.

(Da: Jerusalem Post, 19.12.07)

Nell’immagina in alto: La pubblicistica palestinese descrive il “diritto al ritorno” come una “invasione” demografica di Israele e la sua cancellazione come stato sovrano del popolo ebraico