Il diavolo non è nei dettagli

Due criteri generali senza i quali l’accordo fra israeliani e palestinesi non è possibile.

Di Paul Hirschkorn

image_3326Si dice che il diavolo si nasconda nei dettagli. Beh, non è sempre così. Nel caso dei negoziati fra israeliani e palestinesi volti a creare relazioni pacifiche e auspicalmente fruttuose, le questioni sul tappeto son ben note, essendo state discusse infinte volte sin nei minimi dettagli. È vero che vi sono decisioni difficili da prendere, ma Israele sa perfettamente cosa vogliono i palestinesi proprio come i palestinesi sanno perfettamente di cosa ha bisogno Israele. In questo dialogo, il diavolo sta nel quadro d’insieme. Il riconoscimento reciproco del diritto di autodeterminazione nazionale è l’elemento chiave che deve ancora mettere radici.
C’è poi la questione se si intenda garantire la pace e – cosa importante – una vera collaborazione, o se in effetti si sta parlando solo di uno stato di non-belligeranza permanente.
Quali che siano le aspirazioni a lungo termine, vi sono due punti cruciali che si stagliano sulla strada per un accordo, verosimilmente gli unici due criteri da considerare.
In primo luogo, entrambe le parti devono rendersi conto – non necessariamente volentieri, ma devono accettarlo – che non sono destinate ad ottenere tutto ciò che vorrebbero. Gli israeliani non hanno bisogno di dimostrare questa consapevolezza ai palestinesi, che sanno molto bene che Israele non avrà tutto ciò che vorrebbe. Analogamente, gli israeliani sanno già che i palestinesi non avranno tutto ciò che vorrebbero. Ma i palestinesi, come già fanno gli israeliani, dovrebbero dire a se stessi questa semplice verità.
Gli israeliani ci sono già arrivati: la politica del governo israeliano prevede l’istituzione di uno stato palestinese su territori che sarebbero legittimamente rivendicati anche da Israele, attorno ai quali ruotano gli aspetti territoriali del conflitto. Difficile sostenere, invece, che i palestinesi abbiano accettato questa realtà. Le loro dichiarazioni e i loro comportamenti dicono il contrario.
Ipotizzando, in modo forse un po’ avventato, che i palestinesi abbiano accettato di non ottenere tutto ciò che vorrebbero, si può passare al secondo criterio. Entrambe le parti devono possedere la volontà e la capacità di mettere in pratica qualunque accordo eventualmente concordato. Israele soddisfa questa condizione. Per quanto questa o quella soluzione del conflitto possa dispiacere ad alcuni israeliani, Israele in quanto stato democratico sano e funzionante ha ampiamente dimostrato di possedere la volontà e la capacità di tradurre in pratica decisioni complicate e difficili, sia che si tratti della sicurezza – gli accordi con Egitto e Giordania, il disimpegno militare da Libano e striscia di Gaza – sia che si tratti dei svariati programmi socio-economici intrapresi nei decenni scorsi.
Lasciando da parte la “volontà” – un termine psicologico sul quale possiamo azzardare una seconda ipotesi, e cioè che i palestinesi ne siano muniti – resta certamente aperta la questione se i palestinesi abbiano la capacità di mettere in pratica l’accordo che venisse eventualmente raggiunto.
Invischiata da anni in un’aspra guerra civile, è chiaro che l’Autorità Palestinese esercita zero controllo sulla striscia di Gaza, dove non è in grado di attuare alcunché. Ciò ancor prima di valutare la loro capacità di mettere in pratica un accordo in Cisgiordania. Si pensi quanto potrebbe essere pericoloso individuare un accorto corretto e adeguato fra israeliani e palestinesi, e poi vederlo ammazzare dall’incapacità (dei palestinesi) di metterlo in pratica. Qualche anno dopo, quando le condizioni saranno di nuovo mature per una riconciliazione, bisognerà forse escogitare un nuovo accordo, meno corretto e meno adeguato rispetto a quello precedentemente calpestato?
Nel clima di instabilità e incertezza che caratterizza oggi il Medio Oriente, bisogna muoversi con grande attenzione quando si chiede alla gente di assumersi dei rischi. Tutti sanno che, nelle trattative, a tanto rischio deve corrispondere altrettanto ritorno. Maggiore è il rischio che si chiede agli israeliani di correre, maggiore il ritorno che inevitabilmente deve essere offerto loro. Gli israeliani non hanno margini per l’errore.
Finché i palestinesi non dimostreranno a se stessi, a Israele e alla comunità internazionale che sono in grado di soddisfare questi due criteri, il ritorno che occorre garantire agli israeliani va al di là di ciò che i palestinesi possono offrire, quand’anche concedessero a Israele – sulla carta – il cento per cento di ciò che gli israeliani idealmente vorrebbero: cosa che, per definizione, non potrà mai accadere.
Dato che il vantaggio di arrivare a un accordo si suppone che sia reciproco, è cruciale che i palestinesi facciano progressi nel soddisfare questi due criteri: accettare che anche loro non otterranno tutto ciò che vorrebbero, e dimostrare la capacità di attuare i termini dell’accordo che entrambi sanno che verrà raggiunti attraverso il dialogo.

(Da: Jerusalem Post, 22.12.11)

Nell’immagine in alto: in tutta la pubblicistica palestinese la mappa delle rivendicazioni territoriali palestinesi è inequivocabile: lo stato di Israele è cancellato

Si veda anche:

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