Il fallimento della pace secondo Dennis Ross

In definitiva saranno gli arabi a decidere se cè la possibilità di attuare un accordo con Israele.

image_312Nessuno può vantare più esperienza di Dennis Ross nell’opera di mediazione fra israeliani e palestinesi. Dennis Ross è stato l’inviato speciale in Medio Oriente per due amministrazioni americane: la prima amministrazione (repubblicana) di George Bush padre, e i due mandati dell’amministrazione (democratica) di Bill Clinton. Il libro di Ross “The Missing Peace” [La pace smarrita], in uscita fra poche settimane, è ricco di particolari sui negoziati e sul loro fallimento: una sorta di enciclopedia del processo di pace fra israeliani e arabi, che contribuirà a dissipare molte voci e a smantellare qualche mito.
La lezione che Ross trae dal suo lavoro con arabi e israeliani è importante. A differenza della maggior parte dei commentatori che si sono cimentati sull’argomento e che hanno puntato l’attenzione sulle mancanze di palestinesi, israeliani e siriani, Ross critica prima di tutto gli americani: in pratica se stesso.
Ad esempio egli ritiene che gli americani, in quanto mediatori, avrebbero dovuto fissare delle regole chiare a proposito di impegni violati. La colpa degli Stati Uniti è stata quella di non essere disposti a fermare il processo diplomatico quando avveniva un’importante violazione degli accordi. Ross scrive che gli americani “avevano paura” a denunciare le violazioni perché ciò avrebbe danneggiato il processo di pace, e così finirono col creare un’atmosfera in cui la violazione degli impegni non appariva alle parti come una questione davvero grave. In alterativa, Ross propone di stabilire un “codice di comportamento” che definisca fin dall’inizio cosa è proibito e cosa è permesso.
D’altra parte, secondo Ross gli Stati Uniti hanno avuto il merito di opporsi a ogni soluzione imposta dall’esterno. Ciò contribuì a spingere i leader della regione a rispettare i rispettivi obblighi. Tuttavia gli americani fecero l’errore di prestare troppa attenzione ai leader, e non abbastanza attenzione all’opinione pubblica delle due parti. Ross sostiene che, se le due popolazioni non intraprendono cambiamenti di fondo, non vi sono reali possibilità per la pace.
Gli israeliani, ad esempio, devono cedere il controllo sui palestinesi. Scrive Ross che una delle ragioni del fallimento degli accordi di Oslo fu la non disponibilità a cedere completamente tale controllo. Posti di controllo e blocchi stradali, dice, non vennero completamente tolti anche quando praticamente non si verificavano attentati terroristici.
Palestinesi e arabi in generale, dal canto loro, devono riconoscere che Israele ha esigenze legittime e giuste, un riconoscimento che, secondo Ross, fino ad oggi non è ancora avvenuto. Come esempio, Ross cita le promesse verbali fatte a Clinton da molti leader arabi, che si sarebbero adoperati perché il summit di Camp David (luglio 2000) sortisse risultati positivi. Nessuno di loro mantenne queste promesse.
In base alla propria esperienza, Ross conclude che nessuna concessione da parte di Israele sarà mai considerata veramente notevole da parte degli arabi. In definitiva, dice, saranno gli arabi quelli che decideranno se c’è la possibilità di attuare un accordo con Israele.
Praticamente tutti i leader mediorientali vengono descritti nel libro di Ross, ma un posto particolare nel suo resoconto è dedicato a Yasser Arafat. Ross di domanda se gli Stati Uniti avrebbero evitato di cercare di comporre il conflitto in collaborazione con Arafat se allora avessero saputo sul suo conto ciò che si sa oggi. A posteriori, scrive Ross, può anche darsi che gli Stati Uniti si sarebbero comportati così, ma resta il fatto che allora gli americani erano convinti che fosse vero il discorso sulla debolezza di Arafat e temevano che, esercitando troppe pressioni su di lui, egli potesse cadere, danneggiando irrimediabilmente il processo di pace.
Ross tende ad accogliere la valutazione secondo cui la decisione del governo israeliano di ritirarsi unilateralmente dal Libano meridionale (nel maggio 2000) sotto la pressione degli Hezbollah abbia spinto Arafat a credere di poter usare la violenza per influenzare le decisioni di Israele. Se si fosse raggiunto l’accordo con la Siria ai negoziati di Shepherdstown (gennaio 2000), scrive, ciò avrebbe determinato un sostanziale cambiamento nello status degli Hezbollah (sostenuti da Damasco) e in tutto il fronte arabo del rifiuto, cosa che a sua volta avrebbe influenzato le scelte di Arafat. Ma la pace con la Siria non venne raggiunta, secondo Ross, a causa del fatto che, da una parte, Ehud Barak non era pronto ad accettare l’accordo coi siriani offerto al summit di Shepherdstown e, dall’altra, Hafez Assad respinse le proposte avanzate da Clinton a Ginevra (marzo 2000).
Guardando in avanti, Dennis Ross scrive che il piano di disimpegno israeliano (dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale) può anche essere una mossa positiva, ma che non deve essere considerato un processo in grado di portare a una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

(Da: Ha’aretz, 30.07.4)

Nella foto in altro: Dennis Ross

Si veda anche:

Quando Arafat disse di no alla pace, e perché. Da un’intervista a Dennis Ross

http://israele.net/prec_website/analisi/07052rss.html