Il giusto ruolo della diplomazia

Basarsi sulla stessa ipotesi di 15 anni fa sconfina nellauto-inganno.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_1361Le guerre producono un gran fermento diplomatico, non solo per farle finire ma anche per governane le conseguenze. L’ammissione da parte del primo ministro israeliano Ehud Olmert che il suo “piano di riallineamento” (in Cisgiordania) è “cambiato” darà vita ad ulteriori pressioni per una qualche iniziativa diplomatica. La diplomazia, in particolare in campo arabo-israeliano, “teme il vuoto”.
La guerra in Libano e l’atteso accantonamento del piano di riallineamento (ritiro unilaterale) hanno già suscitato varie richieste di una “seconda conferenza di Madrid”.
Data la fluidità della situazione, Israele ha estremo bisogno di una strategia diplomatica, oltre ai necessari sforzi per garantire che il Libano applichi la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che già non è poco.
Occorre dunque fare un passo indietro e vedere dove ci troviamo rispetto alla prima, originaria conferenza di Madrid, che si tenne fra ottobre e novembre di quindici anni fa. “Il nostro obiettivo deve essere ben chiaro – disse l’allora presidente americano George H. W. Bush (senior) alla cerimonia di apertura – Non si tratta semplicemente di porre fine allo stato di guerra in Medio Oriente e sostituirlo con uno stato di non belligeranza. Ciò non sarebbe sufficiente e non durerebbe. Quello che perseguiamo è piuttosto la pace, una vera pace. E per vera pace intendo trattati, sicurezza, relazioni diplomatiche, rapporti economici, commerci, investimenti, scambi culturali, finanche turismo… Una vera pace – continuò – una pace duratura, deve essere basata sulla sicurezza per tutti gli stati e i popoli, Israele compreso. Per troppo tempo il popolo israeliano ha vissuto nella paura, circondato da un mondo arabo che lo rifiutava. Questo è il momento ideale perché il mondo arabo dimostri che il suo atteggiamento è cambiato, che è disposto a vivere in pace con Israele e a venire incontro alle sue ragionevoli esigenze di sicurezza”.
L’autunno del 1991 era davvero il momento ideale. Il Muro di Berlino era caduto e l’Unione Sovietica era sull’orlo del collasso. Gli Stati Uniti avevano appena cacciato Saddam Hussein dal Kuwait. L’Olp di Yasser Arafat (che aveva perduto gran parte del suo potenziale militare nella guerra in Libano del 1982) essendosi schierata con Saddam stava diplomaticamente e finanziariamente barcollava per la perdita del sostegno dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo. Gli Stati Uniti erano all’apice della loro potenza e un’ondata di libertà sembrava travolgere il mondo intero.
Il momento di Madrid, che in effetti diede vita a qualche temporaneo negoziato diretto fra Israele e stati arabi, confermò quella che deve essere considerata la prima regola della diplomazia: i negoziati non sono in grado di forgiare realmente una nuova situazione strategica; nel migliore dei casi essi possono sostenere e raccogliere i frutti di una fase internazionale favorevole. Quindici anni fa l’occidente usciva vittorioso dalla terza guerra mondiale, nota anche come guerra fredda, fra la democrazia americana e il comunismo sovietico. Oggi si trova nel mezzo della quarta guerra mondiale, la battaglia contro i jihadisti islamisti che rappresentano, come ha detto il presidente George Bush lo scorso 31 agosto, i “successori di fascisti, nazisti, comunisti e di altri totalitarismi del XX secolo”.
Nella lotta di oggi ci sono state singole vittorie, ma siamo ben lontani dal poterci considerare vincitori. Dall’11 settembre, tre regimi sostenitori del terrorismo – in Afghanistan, in Iraq e in Libia – sono stati rimossi dal potere o allontanati dal terrorismo e dalla corsa al nucleare. Ma questa campagna, anziché portare alla caduta del più grande e più pericoloso di quei regimi terroristici, sembra vacillare e sembra aver addirittura imbaldanzito quel regime.
Soprattutto all’indomani di un conflitto nato in Iran e combattuto da Israele contro quella che in pratica è una divisione dell’esercito iraniano di stanza in Libano, è cruciale che la diplomazia venga usata nel senso giusto: quello di combattere una guerra che si avvicina al suo momento critico, non quello di cercare di raccogliere i frutti di una vittoria che deve essere ancora conseguita.
Con questo non si vuol dire che la diplomazia non abbia un ruolo. Al contrario. L’Iran scommette di poter paralizzare l’occidente con le sue minacce e le sue intimidazioni, compreso l’uso di milizie terroristiche on Libano, Iraq e Gaza. Tuttavia, se la diplomazia riuscisse a imporre a Teheran draconiane sanzioni economiche e diplomatiche, l’occidente potrebbe ancora evitare di rimanere, per dirla con lo scrittore Michael Ledeen, “con due sole opzioni terribili: arrendersi o bombardare”.
Come si inserisca la diplomazia arabo-israeliana in questo quadro dipende dal fatto se viene usata per spingere Israele ad accettare accordi pericolosi, o piuttosto per spingere il mondo arabo a dimostrare d’essere pronto a cessare la sua jihad contro lo stato ebraico in se stesso.
Nel 1991 l’ipotesi che vi fosse tale disponibilità araba si dimostrò tragicamente prematura. Basarsi sulla stessa ipotesi oggi sconfina mistificatorio.

(Da: Jerusalem Post, 5.09.06)

Nella foto in alto: Il presidente Usa George H. W. Bush alla cerimonia inaugurale della conferenza di Madrid 1991