Il momento giusto per un altro disimpegno

Ripristinata la propria deterrenza, Israele dovrebbe prendere decisioni unilaterali

Di Guy Bechor

image_2558Negli anni ’90 abbiamo visto un processo acquistare sempre più energia: più Israele andava avanti sul fronte degli Accordi di Oslo, più in Medio Oriente veniva percepito come arrendevole e remissivo: più sprofondavamo nella palude sciita nel Libano meridionale, più apparivamo deboli e miserabili. La combinazione Oslo più Libano era fatale, ma non ce ne rendevamo conto. Eravamo troppo occupati a cantare le lodi del “nuovo Medio Oriente”.
Gradualmente in nostri nemici maturarono la sensazione di essere abbastanza forti da sconfiggere Israele: i gruppi terroristici ci attaccavano incessantemente; migliaia di israeliani, militari e civili, persero la vita. E tuttavia non riuscivamo a cogliere il nesso che collegava i tre punti focali del terrorismo: Giudea e Samaria (Cisgiordania), Libano e striscia di Gaza. Adottavamo politiche differenti su ciascun fronte, il nostro pensiero era diverso su ciascun fronte e assegnavamo a ufficiali diversi il compito di affrontare ciascun fronte.
Nello scorso decennio abbiamo combattuto tre guerre: l’operazione Scudo Difensivo nel 2002, la seconda guerra in Libano nel 2006 e, più recentemente, l’operazione Piombo Fuso nella striscia di Gaza. Queste guerre in realtà costituivano una guerra sola: una guerra per porre rimedio ai danni guasti degli anni di Oslo e del Libano. Se avessimo capito che, di fatto, si trattava di un’unica guerra, avremmo potuto affrontare quell’ondata di attacchi in modo più globale e meno tormentato. Per anni ci siamo tormentati con dilemmi morali e singolari commissioni d’inchiesta, quando in pratica avevamo a che fare con una sola guerra, che conosceva le stesse origini e le stesse leggi: forza e debolezza.
Il danno è stato riparato solo verso la fine di questi ultimi dieci anni. La forza deterrente di Israele è stata ripristinata. Fatah, Hamas e Hezbollah non hanno più interesse, in questo momento, a lanciarsi in una nuova guerra contro le Forze di Difesa israeliane. Israele non è più percepito come remissivo e arrendevole. Le bolle che si erano dilatate, qui, negli ultimi vent’anni si sono completamente sgonfiate: Fatah, Hamas e Hezbollah si sono ristretti e sono tornati alle loro dimensioni originarie: quelle di organizzazioni non poi così imponenti che si erano montate grazie alla loro guerra contro Israele. Dal momento che oggi trovano difficoltà a colmare il gap fra le aspettative che hanno creato e la dura realtà, si rifugiano nelle menzogne e nelle illusioni. Le menzogne del falso “massacro di Jenin”, della “vittoria” di Hezbollah che non c’è mai stata, e dei trionfi fasulli di Hamas. In realtà, tutti oggi in Medio Oriente sanno chi è il più forte: lo hanno dimostrato tre guerre; cioè, una guerra su tre fronti.
Tutti lo sanno, eccetto noi israeliani. Strano davvero: durante gli anni della minaccia e del pericolo, celebravamo il nuovo Medio Oriente ed eravamo euforici. Invece negli anni in cui abbiamo impartito una dura lezione ai gruppi terroristici, siamo preda della depressione. Le nostre reazioni sembrano in totale dissonanza con la realtà che ci circonda. Negli anni ’90 pensavamo di essere forti, mentre in realtà proiettavamo un’immagine di debolezza e mancanza di deterrenza. Dal 2000 abbiamo iniziato a pensare di essere deboli, mentre in realtà godiamo di un’enorme deterrenza.
Ora il dilemma si ripresenta daccapo. I negoziati diplomatici restituiscono di noi un’immagine debole e remissiva, e invitano all’aggressione giacché in questa regione il debole viene regolarmente attaccato. Tuttavia manteniamo le nostre posizioni e vinciamo sul terreno, e allora il mondo arabo dice: beh, sediamoci a negoziare con loro. Ma se noi lo facciamo, ecco che veniamo di nuovo percepiti come deboli e arrendevoli. Dunque, che cosa si può fare per spezzare questo circolo vizioso?
La soluzione è evitare i due corni del dilemma: dovremmo tenerci lontani dai negoziati, da una parte, ma anche dallo scontro e dalla guerra dall’altra. Non abbiamo alcun interesse né negli uni né nell’altra. Il solo modo che può funzionare è il disimpegno. Ha funzionato nel Libano meridionale, ha funzionato a Gaza, deve funzionare in Giudea e Samaria (Cisgiordania). I negoziati non funzioneranno perché i palestinesi li faranno andare a fondo con le questioni di Gerusalemme, dei profughi e quant’altro. Legheranno a corda doppia noi e il futuro dei nostri figli ai loro irrisolvibili dilemmi esistenziali. Solo il disimpegno ci potrà salvare dal loro mondo lacerato.
Questo è il momento giusto perché il governo israeliano prenda un’iniziativa eccezionale. Ad esempio, disimpegnandosi dai quartieri arabi di Gerusalemme, ad eccezione della Città Vecchia. In questo modo almeno 250.000 palestinesi che per qualche ragione sono stati trasformati in arabi israeliani tornerebbero all’Autorità Palestinese. Nessuno al mondo potrebbe contestare questa mossa: anzi, dovrebbero applaudirci. Noi intanto risparmieremmo miliardi di shekel in assistenza e previdenza, garantendoci un risultato che non comporta né negoziati né guerra, ma soltanto una separazione.

(Da: YnetNews, 19.07.09)

Nella foto in alto: Guy Bechor, autore di questo articolo