Il nuovo inizio e il primo passo falso

Grave errore dire al mondo islamico che il diritto di Israele si fonda sulla Shoà

di David Horovitz

image_2513Evocando abilmente il proprio personale retroterra musulmano e impreziosendo la sua sfida con parole di apprezzamento per l’islam come potenziale fonte di tolleranza, il presidente Barack Obama ha nondimeno detto al mondo islamico alcune dure verità, nel suo discorso tenuto giovedì al Cairo. Ed è stato applaudito.
Offrendo, e domandando, un nuovo inizio nei rapporti fra islam e occidente, Barack ha fatto appello al rispetto della vita umana, che ha detto essere comune a tutte le fedi ma che, ha sottolineato, viene disprezzata dagli estremisti musulmani. “Noi – ha detto – fronteggeremo implacabilmente gli estremisti violenti che pongono una grave minaccia alla nostra sicurezza. Giacché rifiutiamo ciò che le genti di ogni fede rifiutano: l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti”. Ed è stato applaudito.
Era naturalmente solo un primo passo. “Nessun discorso da solo può sradicare anni di sfiducia”, ha osservato. Ma un modo per misurare il risultato costituito anche solo da questo singolo discorso è quello di chiedersi se il suo predecessore avrebbe potuto concepirlo, tenerlo ed essere acclamato. La risposta è tre volte no.
Dallo specifico punto di vista particolare del governo Netanyahu, il contenuto del discorso è stato problematico esattamente nella misura in cui ci si attendeva, non di più ma neanche di meno. C’è stata l’insistita conferma della visione “a due stati”, il ripetuto bando alla crescita anche naturale degli insediamenti – benché in una frase notevole per la complessità semantica evidentemente voluta –, e la rappresentazione di una futura Gerusalemme multi-religiosa. Qui Obama non ha fatto che esprimere la tradizionale posizione politica americana: posizioni in linea con il tentativo dell’ultimo minuto fatto, nel 2000, da Bill Clinton di arrivare a un accordo per lo status definito, e che però, oggi come allora, sono un anatema per il Likud e la destra israeliana.
Da un punto di vista israeliano più ampio, non partitico, è stato rincuorante sentire il presidente americano parlare al mondo islamico dell’“indistruttibile legame” con Israele, e sentirlo sottolineare “i legami storici e culturali” che stanno al cuore di questo rapporto, più che di interessi americani freddi e potenzialmente transitori. Positivo anche sentirlo chiarire che l’Iniziativa di pace della Lega Araba è “un importante inizio, ma non esaurisce le responsabilità” dei paesi arabi, e spronare il mondo arabo a “riconoscere la legittimità di Israele” e smettere di usare il conflitto arabo-israeliano come pretesto per “distrarre la gente delle nazioni arabe da altri problemi”.
Meno incoraggiante è stata la porzione straordinariamente breve del discorso dedicata all’Iran. “Per quanto riguarda le armi nucleari – ha iniziato, in modo promettente – siamo arrivati a un punto decisivo”. Ma con la scelta di proseguire affermando il diritto dell’Iran ad “accedere all’energia nucleare pacifica”, non ha offerto alcuna rassicurazione ai regimi arabi terrorizzati dalla corsa di Teheran verso la Bomba, e certamente non ha rassicurato Israele.
Vista da qui, la distribuzione in parti eguali della colpa per il fallimento, fin qui, degli sforzi di pace è apparsa piuttosto sconcertante. “Da più di sessant’anni – ha dichiarato il presidente – il popolo palestinese patisce il dolore del dislocamento. Molti aspettano nei campi profughi in Cisgiordania, a Gaza e nelle terre circostanti quella vita di pace e sicurezza che non hanno mai potuto condurre”. Al che la maggior parte degli israeliani, che hanno visto ignorate in modo sprezzante da parte di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) persino le ultra-generose condizioni offerte da Ehud Olmert per la soluzione a due stati, ribatterebbero: “E di chi è la colpa?”
Ma Obama ha usato anche questa base per ribadire che “i palestinesi devono abbandonare la violenza” e che “la resistenza con la violenza e le uccisioni è sbagliata e non ha successo”. E pochi secondi dopo ha ripetuto e sviluppato il concetto: “Non è indice né di coraggio né di forza sparare razzi su bambini che dormono o far esplodere donne anziane su un autobus. Non è così che si rivendica un’autorità morale: è così che la si perde”. Lo ha detto senza aggiungere la consueta critica in parallelo alla reazione militare israeliana a quelle uccisioni. E lo ha detto ad un uditorio musulmano al Cairo.
Dove invece Obama ha terribilmente perso un’occasione vitale, dal punto di vista di Israele, è stato quando ha legittimato il nostro stato nazionale ebraico esclusivamente sulla base delle persecuzioni subite dal popolo ebraico nel corso dei secoli, “culminate in un olocausto senza precedenti”. Naturalmente negare la Shoà è “cosa infondata, ignorante e odiosa”. E, certo, “minacciare Israele di distruzione” davvero “serve solo a rievocare nella mente degli israeliani quelle memorie dolorosissime, impedendo quella pace cui i popoli di questa regione hanno diritto”. Ma il nostro diritto su questa terra non si fonda solo, e nemmeno primariamente, sulle tragedie che ci sono capitate durante la nostra storia in esilio. Quel diritto è legato, invece, al fatto che eravamo in esilio: da questa terra, dalla patria storica del popolo ebraico.
Questo è l’unico posto sulla faccia della Terra dove gli ebrei sono stati sovrani, il posto che non abbiamo mai abbandonato volontariamente, il posto dove abbiamo sempre pregato di ritornare. La tragedia culmine della Shoà è occorsa proprio perché ci era stata negata quella legittima patria. Sei milioni di vite ebraiche sono andate perdute perché quella legittimità non era stata recepita in tempo a livello internazionale. Questo presidente, da quel podio, avrebbe dovuto mettere in risalto questo punto: avrebbe dovuto sottolineare le radici concrete della nostra legittimità davanti al mondo islamico, e specialmente alla popolazione palestinese, che nella sua stragrande maggioranza rifiuta di riconoscerle.
Invece, purtroppo, il presidente ha parlato del “dislocamento” dei palestinesi “portato dalla fondazione di Israele” (senza fare alcun cenno al rifiuto da parte del mondo arabo di quella entità araba che avrebbe dovuto essere creata simultaneamente accanto alla nostra). Così facendo ha rafforzato proprio quell’immagine di Israele come di una moderna colonia da parvenu che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad cinicamente e strategicamente continua a sostenere.
In un discorso così accuratamente calibrato, tenuto in un’occasione così vitale e urgente, è stata una lacuna grave, che lo stesso Obama dovrebbe ammettere a se stesso di dover correggere, quando tradurrà le sue parole in azione. Giacché il riconoscimento da parte musulmana del nostro fondamentale diritto ad essere qui, esattamente qui, è assolutamente essenziale per l’ammirevole progetto del presidente americano di creare un mondo migliore, un mondo di pace, un nuovo inizio.

(Da: Jerusalem Post, 4.06.09)

La parte sul conflitto israelo-arabo-palestinese del discorso di Obama al Cairo (in italiano):