Il primo dovere di Abu Mazen

Fondamentale per qualunque sostanziale progresso è delegittimare i fomentatori di odio.

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2939È lecito supporre che la notizia delle testate al fosforo sparate dalla striscia di Gaza verso civili israeliani non toglierà il sonno alla comunità internazionale. Lo scandalo e l’indignazione per l’utilizzo di bombe al fosforo – vietate dalla Convenzione di Ginevra se usate contro non combattenti – prorompono solo nel caso in cui sia Israele ad essere accusato di farne cattivo uso (anche senza prove).
Ma che il fosforo sia stato aggiunto intenzionalmente o meno agli ordigni letali lanciati contro di noi, non si può negare che stiamo assistendo ad una marcata escalation delle aggressioni da Gaza. Le cause sottostanti sono molteplici e prevedibili. Paradossalmente, questa regione diventa particolarmente pericolosa proprio quando sono in corso colloqui di pace. Quando Israele e Autorità Palestinese negoziano, in questo nostro spietato ambiente che funziona alla rovescia, questo fatto stesso incita gli scagnozzi dell’Iran guidati da Hamas nella striscia di Gaza a rovinare lo spettacolo con la violenza. Il periodo delle solenni festività ebraiche, poi, non fa che alimentare ulteriormente gli impulsi aggressivi.
L’attuale impennata evidenzia il fatto che Gaza si sta estremizzando sempre più; il che dovrebbe inquietare il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) almeno quanto inquieta Israele. Abu Mazen sta apparentemente negoziando per conto di tutte le componenti dell’Autorità Palestinese, e quando avanza le sue richieste a Israele ci si aspetta che sia conseguentemente in grado di onorare la sua parte di qualunque eventuale patto. Con tutta evidenza, invece, non può farlo finché Hamas controlla la striscia di Gaza. Anzi, Hamas non farà che cercare di intensificare le violenze ad ogni minimo progresso del negoziato.
In questo quadro faremmo bene a tener conto degli avvertimenti giunti la settimana scorsa dal Decimo Congresso Annuale sull’Antiterrorismo tenuto ad Herzliya. Diversi esperti hanno sottolineato che misure per la sicurezza e capacità militari non sono garanzie sufficienti di stabilità finché l’estremismo di una società offre ai terroristi la dignità, la stima e il sostegno di cui hanno ardentemente bisogno. I terroristi non sono fanatici irriducibili che operano nel vuoto, al di fuori di qualunque consenso sociale. Non sono totalmente ostracizzati né scollegati dalla popolazione da cui provengono. Sradicare il terrorismo significa innanzitutto privare i terroristi della popolarità di base su cui prosperano.
Ariel Merari, del Center for Political Violence dell’Università di Tel Aviv, ha illustrato il concetto a Herzliya con un sondaggio aneddotico. Ha intervistato quindici attentatori suicidi falliti, oggi detenuti in Israele. Solo tre di loro hanno detto che non avrebbero cambiato linea di condotta anche se il loro pubblico avesse mutato posizione sugli attentati suicidi. Dunque, la mentalità delle masse palestinesi risulta cruciale. E questo rende ancora più scoraggiante ciò che vediamo a Gaza: non solo non vi è in corso nessun tentativo di conquistare i cuori alla causa della coesistenza, ma anzi avviene esattamente l’opposto. Secondo un’altra relazione pubblicata a Herzliya, soltanto quest’estate sono almeno centomila i ragazzini di Gaza che sono stati sottoposti a indottrinamento estremista nei campi estivi organizzati da Hamas, completi di addestramento paramilitare. Allo stesso modo, la Jihad Islamica palestinese ha indottrinato altri diecimila bambini. Come non bastasse, uomini di Hamas a volto coperto hanno vandalizzato i campi estivi gestiti dall’UNRWA e improntati a programmi differenti.
Glorificare la guerra contro gli ebrei non è un ingrediente secondario di questo “brodo di coltura” geopolitico. Ciò che viene inculcato nelle giovani menti influenzabili diviene la base su cui più tardi queste generazioni si formeranno le loro opinioni e opereranno le loro scelte. Il che non è di buon auspicio per la pace.
Ancora peggio è il fatto che lo stesso Abu Mazen si sottragga dal contrastare con determinazione questa forma di estremismo. Anzi, la sua Autorità Palestinese – coi suoi mass-media ufficiali, il suo sistema educativo, le moschee, persino coi nomi dei “martiri” cui vengono intitolate strade, scuole e piazze – continua a celebrare i terroristi come eroi e come modelli da imitare. E intanto continua ad accumulare insulti e calunnie contro gli ebrei. La tv dell’Autorità Palestinese ha marcato Rosh HaShana (il capodanno ebraico) definendo peccato e lordura” gli ebrei in preghiera al Muro Occidentale di Gerusalemme, e aggiungendo che ogni rivendicazione ebraica di una loro storia in questa terra è falsa.
Abu Mazen potrebbe iniziare col cambiare questo stato di cose, se non a Gaza perlomeno in Cisgiordania. Potrebbe bandire la più sguaiata l’istigazione dalle moschee (in effetti si ha notizia di qualche timido passo in questa direzione); potrebbe intitolare le piazze e le strade ai nomi di chi si batte per le riforme e per la riconciliazione; potrebbe far sì che i mass-media direttamente sotto il suo controllo la smettano di fomentare odio gettando benzina sul fuoco. E quando deve condannare le efferatezze dei terroristi, porrebbe fare qualcosa di più che lamentare il fatto che tali “operazioni” risultano “controproducenti” per gli interessi palestinesi.
Israele non sta negoziando con Hamas che lancia i Qassam e che rimane esplicitamente votata alla nostra distruzione. Sta negoziando in buona fede con Abu Mazen, un leader che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito il suo “partner”. Fondamentale per qualunque speranza di progresso sostanziale è che questo partner usi il linguaggio giusto per delegittimare i fomentatori di odio contro di noi.

(Da: Jerusalem Post, 19.9.10)

Nelle foto in alto: Addestramento paramilitare di ragazzini palestinesi in campi estivi nella striscia di Gaza gestiti da Hamas e Jihad Islamica, addobbati con bandiere in omaggio alla Turchia (luglio-agosto 2010, agenzie Safa e Wafa)