Il problema Siria

Tutte le analisi si focalizzano sulle intenzioni del regime, ma ne ignorano le fondamenta

Da un articolo di Amotz Asa-El

image_1556Recenti offerte da parte siriana di lanciare colloqui di pace “senza precondizioni” hanno generato un acceso dibattito negli ambienti politici e di intelligence israeliani. Secondo alcune notizie, il regime degli Assad sarebbe persino disposto ad accettare una sorte di joint venture con Israele sulle alture del Golan con un’attesa di vent’anni prima di ottenere tutto il Golan nel quadro di un accordo di pace, smilitarizzazione di gran parte del territorio che si estende da Tiberiade a Damasco e il permesso agli israeliani di attraversare in auto la Siria fino alla Turchia.
Le interpretazioni ottimistiche delle intenzioni siriane trovano ispirazione soprattutto nel servizio di intelligence militare, i scettici si annidano invece nel Mossad. Per come la vedono il capo del Mossad e altri, non è che i siriani abbiano avuto improvvisamente un’illuminazione sulla via di Damasco: le loro dichiarazioni più che riflettere un mutamento di atteggiamento strategico verso Israele, riecheggiano semplicemente un periodo transitorio di difficoltà diplomatiche. Damasco, secondo il Mossad, teme che l’impulso generato dalle sanzioni Onu appena approvate contro l’Iran possa raggiungere la Siria, vuoi per il suo ruolo nell’alimentare l’incendio del terrorismo in Iraq, vuoi per le indagini sull’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri per il quale la Siria è uno dei principali sospettati. Stando a quest’analisi, la Siria ha estremo bisogno di una rinnovata legittimità internazionale e il modo migliore per ottenerla sarebbe un dialogo di alto profilo con Israele.
Il dibattito attraversa anche il governo israeliano. Da una parte, il ministro degli esteri Tzipi Livni ha affermato il mese scorso alla commissione esteri e difesa della Knesset che la proposta siriana “deve essere esplorata”. Dall’altra, il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha dichiarato che non intende trattare con la Siria finché rimane implicata col terrorismo: un coinvolgimento che da tempo l’amministrazione Bush rimprovera a Damasco. Infine, il Dipartimento Ricerche del ministero degli esteri ritiene che la Siria voglia un accordo, ma solo a patto che non metta a rischio i suoi stretti rapporti con i mullah iraniani e gli sciiti libanesi.
Il comun denominatore di tutti questi punti di vista è che si focalizzano sulle intenzioni del regime degli Assad ignorando le sue fondamenta. È stato detto e scritto molto, negli ultimi anni in America, circa il deficit di democrazia in Medio Oriente e la conseguente mancanza di legittimità politica e di politiche sociali. La conclusione dell’amministrazione Bush – che bisogna mettere la popolazione in condizioni di governarsi, foss’anche attraverso un aiuto militare esterno – apparve poco realistica agli occhi di molti esperti israeliani che nel loro complesso raccomandavano di continuare piuttosto a trattare coi poteri locali per quello che sono.
Tuttavia, in Siria, anche il “potere locale per quello che è” appare difforme giacché, a differenza di altre autocrazie arabe, è carente non solo in fatto di legittimità politica, ma anche di basi sociali. In nessun altro paese del Medio Oriente c’è un regime la cui elite di governo è espressione di una minuscola minoranza che ammonta, secondo le stime più generose, a meno di un abitante ogni cinque.
Si chiamano alawiti. Originariamente una setta islamica di radici sciite, gli alawiti vedono Dio stesso nel profeta Ali (da cui il loro nome), non costruiscono moschee, celebrano natale e pasqua mentre sminuiscono il Ramadan. Ad occhi occidentali tutto questo potrebbe apparire felicemente ecumenico, ma per i sunniti che dominano il mondo arabo e che rappresentano il 75% della popolazione siriana, gli alawiti sono degli eretici. Per i sciiti sono invece dei fratelli perduti.
Questo è lo sfondo su cui si innesta l’alleanza della Siria con il fondamentalismo sciita, e questo è ciò che tiene in piedi quell’alleanza anche adesso che Teheran sobilla Afghanistan, Azerbaijan e Libano. Quella alawita è anche la luce sotto cui bisogna guardare alla tanta celebrata “laicità” del regime degli Assad. L’obiettivo originario, concepito dall’ideologo del partito Ba’ath Michel Aflaq (1910-1989), cristiano di Damasco, era quello di conglobare le minoranze siriane prive di diritti attraverso un nazionalismo laico che riparasse agli storici abusi da esse subito ad opera della maggioranza sunnita. In realtà ciò che ne scaturì fu la brutale dittatura di una piccola minoranza che suscitò l’ostilità di sunniti, drusi e curdi.
Quello alawita è anche lo sfondo della tanto equivocata inimicizia degli Assad verso il sunnita Saddam Hussein, e il vero contesto della sanguinosa repressione nel 1982 di una rivolta sunnita nella città siriana di Hama. Come osservava lo storico britannico-libanese Albert Hourani (1915-1993), non era in questione il fondamentalismo bensì i frutti dell’oppressione alawita ai danni della maggioranza sunnita.
Ora, fare accordi con il regime alawita significa non solo legittimare il suo dubbio potere sulla Siria, ma anche scommettere sulla sua capacità di sopravvivere a lungo. Tuttavia il rovesciamento del regime ad opera dei sunniti siriani non è solo possibile, ma anche probabile e forse persino inevitabile. Se è vero che un accordo col regime degli Assad potrebbe chiaramente contribuire a prolungarne la durata, tale accordo è comunque destinato ad essere visto dalle vittime degli Assad allo stesso modo in cui le vittime della Scià d Persia finirono col vedere Gran Bretagna, America e Israele.
La maggior parte degli israeliani, pur condividendo l’amore per il Golan, sono generalmente pronti a negoziare la sua cessione, come lo sono stati diversi primi ministri da Yitzhak Rabin a Binyamin Netanyahu. Certo, a differenza di molti “falchi” che vedono la Terra Promessa per lo più sulle mappe o attraverso i finestrini di un pullman, l’israeliano medio è andato tante volte a godersi e ad ammirare le bellezze naturali del Golan. L’israeliano medio ha anche fatto tante manovre militari su quelle alture e non ha bisogno di sentirsi dire quanto siano importanti dal punto di vista tattico. Ciò nondimeno è convinto che quello delle bellezze naturali non sia un argomento più forte di quello delle bellezze naturali del Sinai, che pure Israele ha restituito in cambio della pace; e che i vantaggi tattici del Golan possono essere controbilanciati da un ampio accordo di smilitarizzazione. L’israeliano medio ricorda anche la sentenza del compianto rabbino Shlomo Goren secondo cui, per quantro riguarda la legge ebraica, pur con tutto il rispetto per i resti di antiche sinagoghe in quella regione, il Golan non faceva parte della Terra Promessa e dunque anche lui, eminente falco messianico, diceva che avrebbe accettato un compromesso sul Golan per la pace.
Per cui, sì, Israele deve essere pronto a firmare un accordo di pace con la Siria anche a caro prezzo. Ma deve farlo con un governo di cui si possa sperare che serva gli interessi della sua popolazione e che superi la prova del tempo. Il regime degli Assad è assai improbabile che faccia sia l’una che l’altra cosa.

(Da: Jerusalem Post, 21.01.07)

Nella foto in alto: il presidente siriano Bashar al-Assad