Il riflesso pavloviano della sinistra israeliana

Agita la minaccia demografica e vuole sfrattare decine di migliaia di israeliani dalla Cisgiordania, ma rifiuta uno scambio di territori che non sposterebbe nessuno dalla casa in cui vive

Di Gili Haskin

Gili Haskin, autore di questo articolo

Gili Haskin, autore di questo articolo

Il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman suggerisce che Israele, nel quadro di un accordo di pace con i palestinesi, ceda al futuro stato palestinese suoi territori sovrani densamente abitati da arabi nelle regioni di Wadi Ara e del cosiddetto Triangolo in cambio dell’annessione dei principali blocchi di insediamenti in Cisgiordania. La destra, come al solito, risponde con un rifiuto su tutta la linea. Purtroppo però anche la sinistra reagisce negativamente, con un riflesso condizionato quasi pavloviano. Sembra che reagisca più alla persona particolare che avanza la proposta che non alla proposta in se stessa. In effetti, lo stile di Lieberman è generalmente troppo aggressivo e ostile per i gusti della sinistra, ma questo non significa che non si debba mai ascoltare quello che dice.

A quelli che a sinistra se la prendono tanto bisognerà allora ricordare che i territori di cui si parla furono già oggetto di un accomodamento diplomatico raggiunto fra lo Stato di Israele e la Giordania di re Abdullah, e che dunque anche adesso potrebbero cambiare sovranità in forza di un accordo fra paesi. Non riesco a capire perché la sinistra, che è disposta con relativa leggerezza a sfrattare decine di migliaia di ebrei dalle loro case senza nemmeno far finta che la cosa la addolori, sia poi così drasticamente contraria all’ipotesi di lasciare le persone sulle terre dove vivono, nelle loro rispettive case e città, e di cambiare invece la loro cittadinanza.

Arabi israeliani a una manifestazione in occasione della Giornata della Nakba, città vecchia di Jaffa, 15 maggio 2013

Arabi israeliani a una manifestazione in occasione della Giornata della Nakba, città vecchia di Jaffa, 15 maggio 2013

In realtà non si tratta di un’idea originale di Lieberman. Prima di lui l’avevano avanzata i professori Arnon Sofer e Gideon Biger, entrambi illustri e rinomati geografi [Si veda anche Della Pergola, in calce all’articolo Buone idee – presentate male]. Lieberman riconosce il dato di fatto che qui ci troviamo di fronte a un problema complicato, che non è solo demografico ma anche sociologico. In altre parole, si pongono all’ordine del giorno delicate questioni circa l’identità dello stato ebraico-israeliano nel momento in cui fosse fondato lo stato arabo-palestinese. Anche Lieberman sa che preservare il carattere ebraico e la maggioranza ebraica significa lasciare la maggior parte dei territori di Giudea e Samaria (Cisgiordania). E se Israele vuole conservarne delle parti al di là della Linea Verde del ‘67, dovrà pagare in chilometri quadrati del proprio territorio pre-‘67.

Senza stare adesso a discutere quali parti Israele vorrebbe aggiungere al proprio territorio, dobbiamo innanzitutto considerare che cosa Israele potrebbe offrire in cambio dei territori che desidera ottenere. In cambio di terre (cisgiordane) popolate da israeliani, è del tutto naturale che Israele ceda terre (israeliane) popolate da arabi. Se non sbaglio, è proprio la sinistra quella che sbandiera sempre il pericolo demografico per la democrazia israeliana. Non è chiaro il motivo per cui, dopo un accordo di pace e la divisione del paese in due stati, vi debba essere uno stato arabo totalmente Judenrein (uno dei pochi luoghi al mondo dove gli ebrei non potrebbero stare) accanto a uno stato ebraico in cui il 20% dei cittadini sono arabi che non si identificano con lo Stato, i suoi valori e i suoi simboli.

Contrariamente a quanto affermano gli avversari di questa proposta come Zahava Gal-On, qui non c’è nemmeno l’ombra di un trasferimento di popolazione. Gli arabi non verrebbero affatto cacciati. È Israele che se ne andrebbe. E’ vero che non tutti gli arabi di Wadi Ara gridavano “Itbah al-Yahud” (“uccidete gli ebrei”) nell’intifada del 2000, e che molti arabi israeliani hanno ottimi rapporti personali con gli ebrei. Ma è il discorso collettivo che è diventato sempre più rabbiosamente anti-israeliano. E allora, ognuno per la sua strada.

Un’altra manifestazione di arabi israeliani, che tuttavia rifiutano l’eventuale passaggio delle loro case e città sotto la sovranità del futuro stato palestinese

Gli arabi protestano, hanno paura d’essere abbandonati alla mercé dei loro fratelli, e probabilmente sanno bene il perché. I miei colleghi nella sinistra sono molto allarmati all’idea che la loro cittadinanza venga revocata, che tuttavia non è ciò che accadrà agli israeliani che vivono in Giudea e Samaria: loro verranno fisicamente sradicati dalle loro case, dovranno lasciare una terra dove hanno messo radici, case, sogni, ricordi e tombe, dove molti di loro sono nati e cresciuti, mentre gli arabi di Wadi Ara e del Triangolo perderebbero solo la carta d’identità blu. Magari non è piacevole, ma è una necessità storica. L’idea non è quella di trattarli come furono trattati gli ebrei della striscia di Gaza, ma al contrario di lasciarli nelle loro case e nelle loro terre. In alternativa, quelli di loro che hanno tanto a cuore la democrazia e la cittadinanza israeliana dovrebbero poter convergere nello stato ebraico, e persino ottenere un indennizzo. Senza che vi sia alcun bisogno di pretendere da loro inutili giuramenti di fedeltà.

Ma evidentemente preferiscono restare all’interno di Israele e non rinunciare alla democrazia israeliana e allo stato che odiano tanto. Lieberman ha tolto loro la maschera, e ha anche messo in luce le contraddizioni della sinistra pavloviana.

(Da: YnetNews, 27.1.14)

Si veda anche: «Qui siamo felici, abbiamo tutti i diritti e viviamo bene»