Il settimo giorno entra nel sesto decennio

Una sguardo disincantato sulla catena di eventi che ha portato Israele in un vicolo cieco da Comma 22

Di Emmanuel Navon

Emmanuel Navon, autore di questo articolo

E il settimo giorno il Cremlino si pentì della sua giocata d’azzardo. Aveva provocato la guerra (del ’67) per rafforzare la propria posizione nella regione, ma i suoi clienti arabi ne erano usciti sconfitti e umiliati. L’alleanza tra Israele e la Francia era terminata, ma è con i jet francesi che Israele aveva annientato la forza aerea egiziana. Che Israele abbia o meno soppesato l’opzione nucleare, quell’opzione era stata resa possibile anche dalla cooperazione francese. De Gaulle aveva avvertito Israele di tenere a freno la cavalleria. Ignorato, si scagliò contro gli “ebrei” descrivendoli come “un popolo d’élite, sicuro di sé e dominatore”.

Alla fine Israele restituì la penisola del Sinai nel quadro di un mercanteggiamento da realpolitik originariamente concepito da Henry Kissinger. L’Egitto abbandonò la sua alleanza con l’Unione Sovietica in cambio di un territorio garantitogli dalle pressioni americane su un Israele condizionabile. Per i suoi ex soci arabi, Anwar Sadat era un traditore. Ma l’esito della guerra di Yom Kippur del ’73, al di là della retorica, lo aveva convinto che il Sinai sarebbe stato recuperato solo con la diplomazia e non con la forza. Il siriano Hafez al-Assad rimase invece fermamente fedele ai sovietici, e per questo Israele ha mantenuto il controllo sulle alture del Golan.

In Cisgiordania (così chiamata da quando la Giordania l’aveva occupata del ‘48) le cose erano più complicate. Era la culla della storia e dell’identità ebraica, ma era anche densamente popolata da arabi. “Ci piace la dote, ma non la sposa” fu l’azzeccata descrizione di Levi Eshkol dell’indecisione di Israele. Poi c’era la contesa fra arabi sui diritti di proprietà. Re Hussein voleva recuperare il territorio che aveva controllato dal 1949, ma Arafat voleva “liberare la Palestina”. I due si scontrarono sanguinosamente nel settembre 1970. Lungi dal condividere le conclusioni tratte da Sadat dalla guerra di Yom Kippur, Arafat trovava ispirazione nella sconfitta dell’America in Vietnam (anch’essa del 1973): se i guerriglieri comunisti erano riusciti a sconfiggere gli Stati Uniti, forse che l’Olp non poteva sconfiggere Israele? Il brillante generale Võ Nguyên Giáp spiegò ad Arafat come combinare guerriglia, terrorismo, propaganda e gradualismo. Ed ecco che l’Olp nel 1974 adotta il suo “piano a fasi”.

La mappa distribuita alla popolazione dalle Forze di Difesa israeliane con il tempo in secondi che si ha a disposizione per raggiungere un rifugio dopo l’allarme anti-razzi, a seconda della zona in cui ci si trova (clicca per ingrandire)

Ma Arafat faceva errori di valutazione in serie. Dopo che re Hussein nel 1988 aveva ufficialmente rinunciato alle sue rivendicazioni sulla Cisgiordania, l’amministrazione Reagan aveva avviato un dialogo con l’Olp (nonostante le proteste di Israele). Eppure, quando due anni più tardi l’iracheno Saddam Hussein invase il Kuwait, Arafat si schierò totalmente al suo fianco (convinto di stare in questo modo sotto l’ombrello dell’Urss). Gli Stati Uniti lo bocciarono e l’Arabia Saudita (che era stata minacciata da Saddam Hussein) cessò di finanziarlo. In bancarotta e isolato, nel 1991 Arafat assistette impotente da Tunisi al crollo dei suoi alleati e protettori (l’Iraq e l’Unione Sovietica) e all’enorme immigrazione in Israele di ebrei dall’ex-Unione Sovietica (che fecero temporaneamente pendere la bilancia demografica a favore di Israele). A quel punto Israele gli offrì un patto faustiano: ti salviamo la pelle (politicamente e non solo), ma alle nostre condizioni (riconoscere Israele come interlocutore negoziale). E così nel 1993-95 Arafat firma gli Accordi di Oslo.

Edward Said gridò all’imbroglio, accusando Arafat di capitolare. Ma aveva ragione solo in parte, perché la capitolazione di Arafat era tattica e temporanea. Lo disse lui stesso a Johannesburg il 24 maggio 1994: Oslo non era che una riedizione del Trattato di Hudaybiyyah firmato nel 628 tra il profeta Maometto e la tribù di Quraysh: sottoscritto per mancanza di opzioni migliori, il trattato venne stracciato e il nemico battuto non appena Maometto si trovò in una posizione migliore. Scatenando il suo cavallo di Troia nel settembre 2000 (con l’intifada delle stragi suicide a ripetizione), Arafat inflisse un colpo fatale alla sinistra pacifista israeliana e alla prospettiva dell’indipendenza palestinese.

Ariel Sharon sapeva che di Arafat non ci si poteva fidare, ma sapeva anche che lo status quo era demograficamente insostenibile. Di qui la sua decisione di optare per il ritiro unilaterale (dalla striscia di Gaza) che di fatto, per salvaguardare la demografia, lo portò a rinunciare sia al territorio che alla pace. L’unilateralismo, infatti, dimostrò presto i suoi terrificanti limiti quando Hamas, preso il controllo a Gaza, è riuscita a scavalcare le difese israeliane dall’alto (con i razzi) e da sotto (con i tunnel).

Israele si è ritrovato così in un vicolo cieco da Comma 22: la pace irraggiungibile, lo status quo insostenibile, l’unilateralismo impraticabile.

La soluzione a due stati continua ad essere all’opera in teoria e a fallire nella pratica. Ma nessuna delle alternative ha senso. Una piena annessione trasformerebbe Israele in uno stato bi-nazionale (o uno stato quasi bi-nazionale, se Gaza dovesse essere esclusa dallo schema) con buona pace dell’autodeterminazione ebraica. Un’annessione delle sole Aree C della Cisgiordania si limiterebbe a consolidare l’attuale pantano logistico senza benefici tangibili: Israele comunque controlla già le Aree C (in base agli Accordi di Oslo) e formalmente l’annessione non farebbe nulla per sostituire l’attuale arcipelago di circa 30 enclave sotto Autorità Palestinese.

Alla fine, comunque, Israele dovrà scegliere tra annessione e separazione. Dovrà correre dei rischi, ma dato che Israele è una storia di successo, una potenza militare e una meraviglia economica circondata da stati corrotti e falliti, ha qualche margine di manovra per un rischio calcolato. Il metaforico muro di ferro perorato da Jabotinsky nel 1923 per proteggere Israele dai suoi nemici si è realizzato al di là di quanto Jabotinsky avrebbe mai potuto immaginare. Ben venga, dunque, questa forza senza precedenti, purché se ne faccia tesoro in modo intelligente e attento.

(Da: Times of Israel, 6.6.17)