Il suicidio come via per la salvezza nazionale

Quando shahid (martire) non è solo l’individuo, ma il regime stesso

Da un articolo di Amnon Rubinstein

image_2124Gaza sta diventando un simbolo. Giustamente si sottolinea la necessità per Israele di porre fine al lancio quotidiano, e sempre più esteso, di razzi e granate sui civili israeliani. In effetti è chiaro che, in queste circostanze, prima o poi Israele dovrà assumere un’iniziativa militare – nessun paese farebbe altrimenti – per far tacere mitra e lanciamissili.
In questo contesto, un aspetto assai significativo è quello che riguarda l’atteggiamento dei capi di Hamas circa la tensione crescente. Da un lato essi negoziano – con l’Egitto, non con l’illegittima “entità sionista” – per una cessazione temporanea delle ostilità. Dall’altra, autorizzano la continua estensione della gittata degli attacchi missilistici, ben sapendo che questo non fa che avvicinare il giorno in cui Israele, quale che sia il governo in carica, sarà costretto a ordinare all’esercito di marciare su Gaza per cacciare Hamas dal potere.
Tale è la politica di Hamas: non solo un’infinita e sanguinosa belligeranza contro l’entità sionista, ma anche la disponibilità a perdere persino il controllo su Gaza nel corso di questa guerra. Il che significa la disponibilità a sacrificare non solo la vita di singole persone – uomini, donne, bambini – ma anche quello stesso regime da loro instaurato poco meno di un anno fa con un golpe violento. In altre parole, un suicidio politico in senso lato: shahid (martire) non è solo il singolo individuo, ma il regime stesso.
Può sembrare una conclusione estrema, ma – come scrive Ari Bar Yossef, già responsabile della commissione sicurezza della Knesset – casi analoghi di suicidio nazionale arabo islamico non sono una rarità. Bar Yossef cita tre esempi di regimi che hanno irrazionalmente sacrificato la propria stessa esistenza, mettendo a tacere l’istinto di sopravvivenza, pur di combattere ad oltranza quello che percepivano come l’acerrimo nemico.
Il primo caso è quello di Saddam Hussein che, nel 2003, avrebbe potuto evitare la guerra e la caduta se solo avesse permesso agli ispettori Onu di cercare dove volevano le armi di distruzione di massa (che a quanto pare non esistevano). Invece il rais iracheno optò per la guerra, sapendo benissimo che avrebbe dovuto affrontare la potenza degli Stati Uniti.
Il secondo caso è quello di Yasser Arafat che, nel 2000, dopo il fallimento dei colloqui a Camp David e Taba, aveva due possibilità: continuare a trattare con Israele sotto la leadership di Ehud Barak (il governo più moderato e flessibile che Israele avesse mai avuto) o tornare alla violenza. Arafat scelse la violenza, col risultato che tutti i progressi che erano stati fatti verso l’indipendenza palestinese vennero bloccati. La tragica perdita di vite umane che ne seguì, da entrambe le parti, attesta la preferenza di Arafat per il suicidio rispetto al compromesso.
Il terzo caso è quello dei Talebani. Dopo l’11 settembre, la loro dirigenza aveva due opzioni: avviare negoziati con gli Stati Uniti in vista dell’estradizione di Osama bin Laden, oppure rischiare la guerra e la distruzione. La scelta che fecero è evidente: meglio morire combattendo che cedere di un solo centimetro.
In tutti questi casi, la conclusione è chiara: guerra protratta, morte e distruzione fino al suicidio nazionale sono preferibili alle soluzioni dei conflitti pacifiche e di compromesso. Morire è meglio che negoziare con gli infedeli. È la stessa conclusione, naturalmente, che emerge dal voto dei palestinesi a favore di Hamas e della scelta suicida, così come dalla decisione dell’Iran di scontrarsi con il Consiglio di Sicurezza insistendo sulla strada delle armi nucleari.
Questi casi, benché abbiano pochi precedenti negli annali della storia, non devono sorprendere più di tanto. Dal momento in cui viene glorificato il suicidio individuale, dal momento in cui la morte in battaglia viene descritta come la chiave per un felice aldilà, dal momento in cui la guerra stessa viene santificata (jihad), perché questi concetti non dovrebbero estendersi dall’individuo alla collettività? Al regime stesso? Il suicidio diventa la via per la salvezza sia individuale che nazionale.
Per fortuna, non tutti i regimi arabi e musulmani sono così. La grande maggioranza degli arabi desidera la vita, la libertà e la felicità. Ma quando si tratta dell’odio verso Israele, improvvisamente prevale la follia, e non solo in Iran. È un dato di fatto che l’obiettivo esplicito dell’Iran di “cancellare Israele dalla mappa geografica”, e la minaccia implicita di usare a questo scopo le armi nucleari, trova il sostegno di moltissimi palestinesi, che pure sarebbero i primi ad essere “cancellati” dall’attuazione quel progetto. Il suicidio, nella lotta contro Israele, ha assunto un grado di legittimità che l’occidente non può nemmeno afferrare.
Bisogna fare i conti con questa spiacevole realtà. Da un lato, essa deve spingerci a incrementare gli sforzi per arrivare a un modus vivendi con l’Olp per diminuire l’influenza dei fanatici (nonostante il fatto che qualunque compromesso di questo tipo verrebbe rifiutato dall’Iran e dai suoi sodali). Dall’altro, Israele come il resto dell’occidente deve attrezzarsi per affrontare una guerra lunga, costosa e irrazionale come poche altre in passato.

(Da: Jerusalem Post, 21.05.08)

Nella foto in alto: L’autore di questo articolo