Israele – 60 anni: Rifiuto della spartizione e mito dell’esproprio

Ambiguità e intransigenze caratterizzarono la posizione araba di fronte all’impresa sionista: quando l’Unità scriveva che “la lotta antiebraica è lotta contro il progresso e la civiltà”

di Marco Paganoni

image_2138“Il movimento sionista è nazionale e non imperialista, il movimento arabo è nazionale e non imperialista e c’è posto per entrambi in Medio Oriente”. Lo scrisse nel 1919 l’emiro Feisal ibn Hussein, leader della rivolta araba contro i turchi.
Due mesi prima, a Parigi, aveva firmato con il presidente sionista Chaim Weizmann un accordo che riconosceva il diritto degli ebrei ad immigrare nella Palestina (occupata dagli inglesi) e a stabilirvi la loro sede nazionale. Pose un’unica condizione: che gli venisse riconosciuto il regno arabo unito a cui aspirava.
Ma Londra e Parigi tradirono quella promessa e i risorgimenti nazionali ebraico e arabo, a un passo dall’avviare una pacifica e fruttuosa convivenza, entrarono in rotta di collisione.
Quella rimane una delle rare occasioni in cui un leader arabo abbia mostrato di comprendere i potenziali vantaggi della cooperazione coi sionisti. Prevalse invece, rispetto alle aspirazioni ebraiche, un atteggiamento a metà tra opportunismo predatorio e intransigenza aggressiva, che non solo procurò innumerevoli lutti a entrambe le parti ma si dimostrò anche tragicamente miope sul piano storico e politico.
Quando, nella seconda metà dell’800, prese avvio la moderna immigrazione ebraica nella Palestina ottomana (per gli ebrei Eretz Israel, Terra d’Israele), gli arabi erano meno di trecentomila, e molti si erano stabiliti da poco in quel paese che non era mai stato esclusivamente arabo (gli ebrei, ad esempio, erano già maggioranza a Gerusalemme) e che non era mai stato una nazione araba indipendente. Era una regione arretrata e sotto-popolata, con un’agricoltura primitiva, poco commercio locale, industria quasi inesistente. Al vertice della società araba stavano gli effendi, grandi proprietari terrieri che sfruttavano i fellahin: contadini analfabeti, incatenati alla povertà e ai debiti, vessati da nomadi predoni.
Gli ebrei in arrivo – parte animati da alti ideali, parte profughi in fuga da recrudescenze di antisemitismo – si danno all’acquisto delle terre nel paese dei padri che sognano di redimere e portare a nuova vita. Intanto introducono moderne tecniche agricole nonché rapporti sociali, ideologie politiche, spirito e costumi del tutto nuovi e dirompenti per la comunità araba, tradizionale e patriarcale. Non stupisce che l’avvento della modernità portata dagli ebrei abbia scatenato l’opposizione dei ceti sociali che dal vecchio assetto traevano vantaggi e potere. Un’opposizione chiassosa e a tratti violenta, ma anche molto ambigua. “Uno dei paradossi dell’insediamento sionista – spiega Eli Barnavi – è il fatto che esso si sia realizzato grazie agli arabi di Palestina, grandi signori e piccoli fellah, che vendevano le loro terre agli enti sionisti. Lo fecero tanto le grandi famiglie feudali, la cui avidità di guadagno aveva la meglio sulle considerazioni politiche, quanto le collettività dei villaggi, desiderose di sbarazzarsi di terre incolte ad alto prezzo”. Il valore commerciale della maggior parte delle terre, inizialmente molto basso, conosce un incremento vertiginoso, con il conseguente trasferimento di ingenti capitali dagli acquirenti ebrei ai venditori arabi. Basti ricordare che negli anni ’40 gli enti ebraici pagavano più di mille dollari un acro di terra per lo più arida, quando nello stesso periodo un acro di terra fertile nello stato americano dello Iowa veniva pagato poco più di cento dollari. “Gli ebrei – scrisse la Commissione Simpson nel 1930 – hanno pagato prezzi molto alti per la terra, e spesso hanno anche versato a chi occupava quelle terre senza esserne proprietario somme considerevoli che non erano tenuti a pagare”. Così vennero vendute, ad esempio, le terre demaniali nella valle di Beit She’an, a sud di Tiberiade, che negli anni ’20 gli inglesi avevano distribuito a tribù beduine che non sapevano cosa farsene; e le terre paludose della Valle di Hule, di proprietà d’una sola famiglia che viveva in Siria e che le aveva avute dal Sultano turco. Delle terre acquistate dagli enti fondiari ebraici tra il 1901 e il 1947, il 73% era stato ceduto dal demanio o da grandi proprietari terrieri, generalmente assenteisti. Vendette il sindaco arabo di Giaffa; vendette Assad Shuqeiri, padre di Ahmed Shuqeiri, futuro fondatore dell’Olp; vendettero molti membri del Consiglio Supremo Islamico.
Sono gli stessi anni in cui monta la campagna araba contro gli ebrei che “espropriano ed estromettono” gli arabi di Palestina. “E’ chiaro – scrisse re Abdullah di Transgiordania nelle sue memorie – che gli arabi sono prodighi nel vendere terre almeno quanto lo sono nel piangere e lagnarsi”. D’altra parte, notava l’Alto Commissario Britannico nel 1938, lamentare la perdita di terre è anche un modo per alzarne il prezzo.
Tanto più che, in quegli anni, gli arabi non vengono affatto estromessi. Anzi, attratti dallo sviluppo economico innescato dalla comunità ebraica, ne arrivano dai paesi vicini. “L’immigrazione araba – osserva negli anni ’30 il governatore britannico del Sinai – continua non solo dall’Egitto, ma anche dalla Transgiordania e dalla Siria, ed è difficile sostenere che gli arabi in Palestina vengano spodestati se nel frattempo continuano ad arrivarne altri”. Le migliori condizioni di vita determinano anche un incremento naturale dovuto al calo della mortalità, specie infantile (che tra il ’25 e il ’45 crolla da 201 a 94 per mille). “La carenza di terre – afferma nel 1937 la Commissione Peel – non è tanto dovuta agli acquisti da parte ebraica, quanto all’aumento della popolazione araba”. “Un aumento – nota Baruch Kimmerling – iniziato dopo un lungo periodo di stagnazione e decremento demografico. Oltre agli immigranti da Egitto Siria e Libano, si ebbe una crescita naturale annua fra le più elevate del Medio Oriente: più del 20 per mille. In poco più di due decenni, fra il ‘22 e il ‘44, il numero degli arabi raddoppiò”. Fatto ancora più significativo, l’aumento si concentra proprio nei distretti dove è più alta la densità ebraica: tra il 1922 e il 1947, ad esempio, nelle città miste di Haifa e Gerusalemme gli arabi crescono rispettivamente del 290% e del 131%, mentre nelle città solo arabe di Nablus e Jenin aumentano del 42% e del 37%.
Nel frattempo l’yishuv, la comunità ebraica in Terra d’Israele, continuava a svilupparsi, inaugurava nuove sperimentazioni sociali (kibbutz), apriva strade, fondava città (Tel Aviv nel 1909), creava università (nel ‘24 il Technion di Haifa, nel ‘25 l’Università di Gerusalemme), rivitalizzava l’antica lingua ebraica, dava vita a una moderna democrazia dotata di partiti, giornali, sindacati. Alla fine degli anni ’30 lo stato degli ebrei di fatto esisteva, benché ancora sotto governo britannico, come riconobbe la Commissione Peel, che infatti propose per la prima volta di dividere il paese in due stati. Ma nel maggio ‘39, alla vigilia della conflagrazione mondiale, spinta dalla necessità di ingraziarsi i nazionalisti arabi bellicosamente attratti dalle ideologie e dalla politiche delle potenze dell’Asse, Londra preferì varare un Libro Bianco che limitava pesantemente le concrete possibilità di immigrazione degli ebrei, anche di quelli intrappolati nell’Europa della Shoà.
L’idea di spartire la terra fra i due popoli riemerge solo più tardi, il 29 novembre 1947, con il voto dell’Assemblea Generale dell’Onu che raccomanda la suddivisione del Mandato Britannico in due stati, uno arabo e uno ebraico: è la risoluzione su cui si fonda la dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele (14 maggio 1948). Ma gli arabi si oppongono. Quando Abba Eban offre un estremo compromesso per scongiurare la guerra, il segretario della Lega Araba Azzam Pasha gli risponde candidamente: “Il mondo arabo non vuole un compromesso. Non otterrete nulla con mezzi pacifici: noi ci sforzeremo di sconfiggervi. Può darsi che la vostra proposta sia ragionevole, ma il destino delle nazioni non viene deciso dalla logica”. “E’ difficile capire – scriveva in quei giorni il London Times – come il mondo arabo in generale, e men che meno gli arabi di Palestina, possano affliggersi per quello che è solo il riconoscimento di un dato di fatto: la consolidata presenza in Palestina di una comunità ebraica compatta, ben organizzata e virtualmente già autonoma”. E l’Unità spiegava: “Gli effendi, questi tenaci assertori dei diritti dei latifondisti arabi, vi ricorderanno che tra il 1922 e il 1944 gli ebrei sono passati da 84.000 a 554.000, ma non vi diranno che i musulmani sono aumentati nello stesso periodo da 589.000 a 1.061.000 grazie alla diminuita mortalità, principalmente infantile, mentre l’accresciuta fertilità del suolo, i lavori ebraici di bonifica e la nascita di città industriali hanno reso possibile alla Palestina di accogliere arabi dai paesi vicini. Il fellah che manda a scuola i suoi figli e che per la prima volta dopo secoli di miseria ha del denaro sono novità pericolose per una dominazione ancora medioevale. La lotta antiebraica prende così il suo carattere di lotta contro il progresso e contro la civiltà”.
Ergendosi a paladini della causa palestinese, i paesi arabi si lanceranno in una catastrofica guerra contro il neonato Israele, con il malcelato intento di spartirsene le spoglie. Israele riesce a difendersi, ma i territori destinati agli arabi palestinesi cadono sotto occupazione egiziana e giordana. Amman li annette, mentre l’Egitto fa stampare francobolli con la scritta “Gaza è parte della nazione araba” e fa dire a Shuqeiri: “Si sa che la Palestina non è altro che la provincia siriana meridionale della nazione araba”.
Chi farà le spese dell’infida solidarietà araba saranno in primo luogo gli sfollati palestinesi, in fuga dalla guerra verso i paesi fratelli dove verranno segregati nei campi profughi, succubi della scelta araba di usarli per decenni come strumento di propaganda e di terrorismo: vera e propria “carne da cannone” del revanscismo anti-israeliano.

Nelle foto in alto: Rehavia nel 1921, quando sorse su terre disabitate (sopra); la stessa località nel 1937 (sotto)