La battaglia per la legittimità

Oggi uno stato palestinese conviene più agli israeliani che ai jihadisti palestinesi.

Da un articolo di Saul Singer

image_1129A conti fatti, quella al centro delle imminenti elezioni israeliane è una questione abbastanza semplice: alla luce dell’ascesa al potere di Hamas, dobbiamo smantellare altri insediamenti in Cisgiordania nel tentativo di definire in modo unilaterale i nostri confini?
Per molti una risposta affermativa a questa domanda equivale a pura follia. Coloro che considerano i ritiri unilaterali già di per sé sconsiderati, vedono nell’ascesa di Hamas un elemento che conferma e anzi rafforza la loro opinione. Non hanno bisogno di spiegare granché: che senso può avere gettare un altro osso a un cane che diventa ogni volta sempre più forte e aggressivo?
Questa scuola di pensiero mestamente attribuisce il successo nei sondaggi elettorali del Kadima, il partito pro-disimpegno, allo sfinimento e a una istintiva inclinazione per la arrendevolezza verso il nemico da parte di persone viziate nella libertà. L’onere della prova, a quanto sembra, ricade su chi sostiene la proposta del Kadima e deve offrirne una buona spiegazione.
Ma, innanzitutto, cosa propone esattamente il Kadima? Non lo sappiamo, ma le dichiarazioni di un alto esponente di quel partito nonché ex capo dei servizi di sicurezza come Avi Dichter, e altre notizie di stampa, ci forniscono un quadro abbastanza chiaro. Se eletto, il primo ministro israeliano ad interim Ehud Olmert punta a smantellare altri insediamenti al di là della barriera di sicurezza in cambio del sostegno americano per i confini de facto che Israele in questo modo verrebbe a definire. Dichter spiega che il modello non sarebbe quello del ritiro dalla striscia di Gaza, che riguardava sia civili che militari, quanto piuttosto quello del disimpegno da una parte della Samaria [Cisgiordania settentrionale], dove sono stati smantellati alcuni insediamenti ma le Forze di Difesa israeliane hanno mantenuto il controllo della sicurezza sull’area sgomberata. Viene anche riferito che Israele trasformerebbe il confine con la striscia di Gaza in una vera frontiera internazionale, lasciando che i palestinesi gestiscano il loro porto e aeroporto, sospendendo l’ingresso quotidiano di pendolari palestinesi in Israele, e facendo in modo che l’Autorità Palestinese subentri a Israele nella riscossione delle imposte doganali e nelle forniture di acqua ed elettricità.
In sostanza, dunque, l’opinione dell’elettorato israeliano si è completamente ribaltata. Prima del 1993 la maggior parte degli israeliani considerava un eventuale stato palestinese come una minaccia alla propria esistenza. Oggi una analoga maggioranza non solo accetta l’idea di uno stato palestinese, ma sembra addirittura orientata a costringere i palestinesi ad averne uno, a costo di correre il rischio che quello stato sia pesantemente armato e apertamente in guerra contro Israele.
C’è una spiegazione logica per questo mutamento di posizione diversa da quella che semplicemente vede gli israeliani come sconfitti e piegati da anni di stragi e attentati suicidi. Dopo tutto, la nostra società ha tenuto straordinariamente bene sotto l’aggressione terroristica, e ha dato dimostrazione di una volontà e di una capacità di resistenza molto maggiore di quanto avessero immaginato i dirigenti palestinesi, e anche parecchi israeliani. La spiegazione logica è che l’ascesa di Hamas viene vista non tanto come una minaccia quanto come un’opportunità, e che i palestinesi, non gli israeliani, sono quelli che si trovano ora in condizioni di grande debolezza.
Diamo un’occhiata per un momento alla teoria della vittoria palestinese e a come è andata veramente. Alla fine del 2000 Yasser Arafat capì che lanciando una guerra terroristica poteva sottrarsi alle pressioni che si era tirato addosso col rifiuto dell’offerta di uno stato da parte di Israele. Può sembrare paradossale: perché mai la comunità internazionale, che accusava Arafat del fallimento del vertice di Camp David, avrebbe dovuto condannare Israele che veniva aggredito dal terrorismo? Eppure la strategia di Arafat funzionò. Molto rapidamente Israele non solo si ritrovò vittima di una molteplicità di attentati stragisti, ma sprofondò anche in un isolamento internazionale così pesante da dare vita persino a un’ondata di manifestazioni antisemite.
Consideriamo ora la situazione attuale. Da un periodo iniziale in cui ogni più piccola azione militare israeliana rischiava la censura da parte degli Stati Uniti e del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Israele è arrivato oggi a un punto in cui può contare su una quasi completa libertà di manovra militare contro i terroristi e i loro capi. La comunità internazionale non è ancora capace di chiamare l’Autorità Palestinese a render conto del terrorismo palestinese, ma per lo meno non ne dà sistematicamente la colpa a Israele, ed anzi sempre più spesso mette in conto che Israele agisca per difendere se stesso e i propri cittadini. Sotto questo punto di vista, l’ascesa al potere di Hamas ha solo peggiorate le cose per i palestinesi.
Fatah e Hamas abbracciano entrambe la strategia a fasi, quella secondo cui ogni lembo di terra ottenuto deve diventare la piattaforma da cui continuare la lotta per la liquidazione completa di Israele. Ma Hamas, a differenza di Fatah, proclama apertamente questa strategia, il che rende molto più difficile gettare su Israele la colpa dell’aggressione terroristica.
In generale, la strategia palestinese dipendeva molto dalla capacità di celare l’obiettivo finale della distruzione di Israele, che è in aperta contraddizione con la soluzione “due popoli-due stati”. L’ironia sta nel fatto che solo sostenendo di voler costruire il loro stato e di voler fare la pace con Israele, la dirigenza palestinese poteva evitare di fare entrambe le cose.
Fatah e Hamas sapevano bene che tanto più avanti si fossero spinti nell’edificazione di un loro stato, tanto più difficile sarebbe stato mantenere viva la guerra contro Israele. La simpatia internazionale dipendeva dalla loro condizione di “senza patria”. Una volta che avessero ottenuto uno stato, foss’anche “mutilato”, il conflitto si sarebbe trasformato in un conflitto per i confini, e l’esistenza di Israele acquisita come un dato di fatto definitivo. Quand’anche la comunità internazionale avesse parteggiato per le rivendicazioni della parte palestinese, in ogni caso in pratica il loro vero obiettivo – l’eliminazione di Israele – sarebbe stato abbandonato.
Tuttavia, anche accettando la logica secondo cui oggi uno stato palestinese risponde più agli interessi degli israeliani che dei jihadisti palestinesi, resta comunque aperta la domanda del dove e del come. E se diventa uno stato terrorista?
L’implicita risposta, oggi, di Ariel Sharon e del Kadima è che i palestinesi possono sì porre una minaccia esistenziale contro Israele, ma solo sul piano della legittimità, non su quello militare. I palestinesi, più abbracciano il terrorismo, meno rappresentano una minaccia per Israele sul fronte della legittimità internazionale. Sul fronte militare, questa e l’idea, la minaccia è gestibile, soprattutto se Israele vince la battaglia sul terreno della legittimità.
Per quanto riguarda i tempi, Israele si trova in condizioni migliori per definire unilateralmente i propri confini quando i palestinesi sono guidati da un regime pariah, che non quando sono vezzeggiati dal resto del mondo. Se si vuole guadagnare un consenso internazionale al mantenimento del controllo israeliano su alcuni blocchi di insediamenti e sulla valle del Giordano, quale momento migliore di questo in cui Israele viene visto, e giustamente, come un paese che sta cercando di separarsi da un regime terrorista?
Kadima, e con lui gli israeliani, sta scommettendo sul fatto che, sebbene dei confini unilaterali teoricamente restino sempre oggetto di possibile negoziato, tuttavia per almeno un’altra generazione i palestinesi non saranno disposti a discutere l’accettazione definitiva di Israele. Ma a quel punto i confini de facto saranno più meno consolidati.
La scommessa è che ciò che sembra peggio (la vittoria di Hamas) in realtà sia meglio, e che ciò che a prima vista sembra un pericolo (i ritiri) sia in realtà la via più sicura. C’è solo da sperare d’aver visto giusto.

(Da: Jerusalem Post, 9.03.06)

Nella foto in alto: Saul Singer, autore di questo articolo