La carota (e il bastone) di Abu Mazen

Se avete limpressione di un deja vu, non vi si può dare torto.

image_547Se avete l’impressione di un deja vu, non vi si può dare torto. Ma i recenti sforzi del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) per imporre ai gruppi palestinesi un cessate il fuoco potrebbero sortire risultati diversi dal quelli del precedente esperimento abortito nel 2003.
Gruppi affiliati all’Olp, come le Brigate Martiri di Al Aqsa e il Fronte per La Liberazione della Palestina, avrebbero accettato sabato sera un cessate il fuoco, mentre la Jihad islamica e Hamas sembra che siano a un passo dal raggiungere un’intesa con Abu Mazen. Tutto questo, unito ai colloqui fra Fatah e Hamas a Gaza e forse ad altre discussioni al Cairo, sembra ripetere il copione seguito dal governo dell’Autorità Palestinese sotto la guida dell’allora primo ministro Abu Mazen nella primavera-estate del 2003. E ancora una volta, come già fecero un anno e mezzo e durante la breve “hudna” (tregua provvisoria) dell’estate del 2002, tutti i gruppi chiedono reciprocità da Israele, cioè cessazione delle incursioni e delle uccisioni mirate (di esecutori e mandanti del terrorismo). Di nuovo, come nel 2003, gli uomini di Sa’eb al-Ajez, capo delle forze di polizia palestinesi a Gaza, vengono mandati a pattugliare le strade, istituire posti di blocco e persino a tenere d’occhio i rinnegati che sparano mortai nei campi tutt’attorno.
Solo che questa volta l’Autorità Palestinese ha ben poco spazio di manovra. “Noi palestinesi abbiamo bisogno della hudna per far progredire le nostre posizioni politiche e diplomatiche rispetto a Israele – spiega Adli Sadiq Sadiq, analista palestinese di Khan Yunis – Tutto il mondo ci attribuisce la responsabilità per la continuazione delle violenze. Abbiamo bisogno di fermare gli attacchi e rimandare la palla in campo israeliano. Speriamo solo che questa hudna non sia fragile come l’ultima”.
Abu Mazen è anche messo alle strette da Washington. Un alto diplomatico occidentale che ha visitato la scorsa settimana Israele e territori palestinesi si è assicurato che l’Autorità Palestinese capisse bene che, con l’Iraq in fiamme, l’amministrazione Bush ha assoluto bisogno di un successo in Medio Oriente. Ne consegue, secondo il diplomatico, che la posta in gioco a Gaza per Abu Mazen è molto alta. Se riesce, l’amministrazione Bush potrà presentare la propria politica in Medio Oriente come un successo almeno parziale, e Abu Mazen si sarà guadagnato la fiducia della Casa Bianca. Se fallisce, può scordarsi di pernottare molto spesso a Washington.
Finora Abu Mazen ha mostrato solo la carota. Con la Jihad Islamica praticamente in tasca, sta corteggiando Hamas perché accetti la hudna offrendo in cambio la legittimazione e la possibilità di una reale partecipazione nei diversi round delle elezioni amministrative e legislative in agenda per i prossimi sei mesi. Ma sta anche preparando il bastone, come ha detto sabato scorso un alto esponente di Fatah a Ramallah. E il nome del bastone, secondo questa fonte, è quello del generale Nasser Yousef.
Yousef è lo stesso generale che, guadagnati i galloni nei campi d’addestramento in Pakistan, firmò nel 1996 l’offensiva palestinese contro Hamas. Fu lui il primo palestinese ha tirare giù coi bulldozer una moschea, dopo che Hamas l’aveva illegalmente eretta su “terreno statale” in aperta sfida ad Arafat e ai servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese.
I capi di Fatah già vedono chiudersi la loro finestra di opportunità. Se i palestinesi non riusciranno a indurre Israele ad avviare negoziati sull’accordo per lo status definitivo prima che Ariel Sharon realizzi il piano di ritiro unilaterale della prossima estate, spiega un esponente interno di Fatah, allora potrebbero ritrovarsi bloccati in una soluzione provvisoria per altri trent’anni.
Secondo gli esponenti di Fatah, l’idea che Abu Mazen preferirebbe usare le armi contro se stesso piuttosto che puntarle contro i suoi oppositori è un po’ esagerata. Persino l’ultra diplomatico Saeb Erekat se n’è uscito con una frase che non è da lui, venerdì scorso, in un’intervista al valico di Erez, quando ha affermato che “il pluralismo politico è una cosa, ma nessuna società può tollerare il pluralismo dell’autorità, e speriamo che presto tutti gli elementi riconoscano l’autorità dello stato di diritto”.
Ora, continua la fonte di Fatah, Yousef guiderà una massiccia riforma delle forze di sicurezza palestinesi, che saranno pronte, se richieste, a usare la frusta con Hamas. Il piano, se realizzato, causerà un vero terremoto nelle forze dell’Autorità Palestinese. Le tredici diverse forze dovrebbero essere raggruppate in tre soli apparati: sicurezza nazionale (che comprenderebbe l’esercito e le pattuglie di confine), la sicurezza interna (che comprenderebbe tutte le varie forze di polizia), e i servizi di intelligence (che riunirebbero finalmente i diversi “mukhabarat” o servizi segreti palestinesi). Molti degli alti ufficiali attualmente a capo di questa o quella milizia verrebbero ridistribuiti all’interno della pletorica burocrazia dell’Autorità Palestinese. Alcuni verrebbero mandati all’estero come ambasciatori, altri verrebbero candidati nelle elezioni amministrative, il cui secondo round dovrebbe iniziare già il 27 gennaio. “Chiaramente – dice la fonte di Fatah – molti alti ufficiali sono in uno stato di autentica depressione, giacché non sanno come potranno fare senza tutti i loro attuali privilegi”. Abu Mazen ha molta strada da fare.
Si dice che in Medio Oriente più cose cambiano, più tutto rimane come prima. Yasser Arafat è morto, ma più del 70% degli stipendi delle forze di sicurezza palestinesi vengono ancora pagati da Muhammad Rashid, il tesoriere di fiducia di Arafat. Rashid, considerato una persona concreta, uno che ha sempre coerentemente criticato l’uso della violenza nell’intifada, non ha perduto completamente i favori di Israele. In effetti, secondo fonti a Ramallah, nei giorni scorsi Rashid si sarebbe incontrato con alti funzionari israeliani a Tel Aviv. Per israeliani e palestinesi Rashid è ancora un personaggio da capire. È uno che controlla il monopolio del cemento nei territori palestinesi, e che intanto promette di far saltar fuori circa 600 milioni di dollari dai fondi del popolo palestinese occultati su vari conti in giro per il mondo. Forse anche lui sta solo aspettando di capire da che parte tira davvero il vento.

(Matthew Gutman su Jerusalem Post, 23.1.05)

Nella foto in alto: poliziotti palestinesi in servizio alle porte di Beit Hanoun (striscia di Gaza settentrionale)