La deterrenza serve a poco contro un regime nucleare terrorista

A Israele l’ingrato compito di ricordarlo al mondo

Da un editoriale del Jerusalem Post

image_2047Nello stesso stile del famigerato rapporto dell’intelligence americana sull’Iran, ma con diverse conclusioni, i servizi israeliani hanno offerto il 9 marzo scorso la loro valutazione per l’anno entrante. Come quella dei loro colleghi americani, la versione dell’intelligence israeliana è fondata su un’analisi degli scenari possibili, il che permette ai servizi segreti di coprire praticamente tutte le eventualità e poi sostenere d’aver visto giusto in ogni caso.
Perlomeno, però, la versione israeliana, a differenza di quella americana, non tenta di nascondere ciò che è evidente: e cioè che l’Iran cerca accanitamente di dotarsi di armi nucleari. Questa conclusione, nel rapporto, conta decisamente più di varie altre valutazioni, senz’altro corrette ma un tantino futili (come la “bassa probabilità” di una guerra generale nella regione).
Ancora più utile sarebbe stato enunciare apertamente le implicazioni politiche a livello strategico di questa conclusione, ad uso dei decisori israeliani e occidentali.
A quanto pare, ad esempio, il rapporto non afferma apertamente quelli che dovrebbero essere i due punti salienti della politica occidentale: 1) che il futuro di qualunque processo diplomatico-negoziale dipende interamente dal fatto se all’Iran sarà consentito o meno di nuclearizzarsi; 2) che applicare il modello della deterrenza all’Iran non servirà ad impedire a Teheran di portare avanti la sua agenda a spese della sicurezza, della libertà e del benessere internazionale.
Il primo punto, in base all’esperienza di queste ultime settimane, è persino banale. Eppure non sembra che sia stato pienamente recepito. Va benissimo perseguire il processo diplomatico come una sorta di fiduciosa alternativa allo status quo, ma sarebbe folle aspettarsi che questa pratica di per sé possa soverchiare le forze cui è stato permesso di raggrupparsi e rafforzarsi proprio allo scopo di farlo fallire. La pace non può essere perseguita come se non esistessero Hamas e i missili che Hamas lancia sulle città israeliane. Né può essere perseguita come se l’Iran non diventasse sempre più spavaldo nel suo appoggio a Hamas e Hezbollah. E non può nemmeno essere perseguita – cosa forse più importante – quando tutti gli stati arabi allineati con gli Usa stanno già regolandosi in anticipo in vista del giorno in cui l’Iran sarà nucleare, e potrà impunemente minacciare i loro regimi.
Il che ci porta dritti al secondo punto, cioè al problema della deterrenza e del contenimento, che è tacitamente diventata l’approccio consensuale nell’establishment esteri e difesa dell’occidente rispetto all’Iran. Benché solo raramente espressa in pubblico, la veduta comune dell’establishment è che un Iran nucleare non sarebbe poi così diverso da quello che era l’Unione Sovietica nucleare, o da quello che sono oggi la Cine e il Pakistan nucleari. Vale a dire: un problema, certo, ma col quale si potrebbe convivere.
Ciò che questo approccio non coglie è che il regime iraniano è diverso. E non solo – forse nemmeno principalmente – perché glorifica il martirio. In effetti, può ben darsi che il regime iraniano sia l’equivalente su scala nazionale di un attentatore suicida. Ma se anche non lo fosse, e fosse dunque sensibile ai classici effetti della deterrenza, il problema che pone l’Iran è diverso.
È diverso perché il meccanismo della deterrenza può solo impedire, nel migliore dei casi, che una nazione lanci missili a testata nucleare. In teoria – ma non vi è alcuna garanzia – potrebbe anche dissuadere un regime dal dispiegare armi nucleari per mezzo di gruppi terroristici non immediatamente identificati con lo stato che ne sta all’origine. Ma sicuramente non può impedire, nemmeno in teoria, che un regime utilizzi la sua nuova impunità nucleare per aumentare enormemente il suo appoggio al terrorismo “convenzionale”, destabilizzare i regimi vicini, distruggere i processi diplomatici, creare crisi per gonfiare il prezzo del petrolio, scatenare corse agli armamenti non convenzionali.
Se mai esiste un’analogia storica adatta alla situazione iraniana, non si tratta della Guerra Fredda bensì del periodo che Winston Churchill chiamò “The Gathering Storm”, alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando i nazisti erano ancora abbastanza deboli ma acquistavano rapidamente forza. Questa è l’analogia che regge, perché il regime iraniano cercherà di espandere il totalitarismo islamista quanto più possibile e quanto più rapidamente possibile, finché non verrà fermato.
Questo dovrebbero dire i servizi di intelligence israeliani sul piano analitico, e questo dovrebbero dichiarare i politici israeliani sulla scena internazionale. E bisognerebbe farlo senza timore di trasformare un problema internazionale in una questione “tutta israeliana”. Israele deve essere in prima linea nel mostrare le implicazioni internazionali di un Iran nucleare, cosa che non è stata fatta con sufficiente urgenza né chiarezza.
Ora ci troviamo con il risultato peggiore: l’Iran viene visto come una minaccia soprattutto contro Israele, ma se Israele non sembra particolarmente allarmato, allora anche gli altri pensano che non vi sia motivo di preoccuparsi più di tanto.
È giusto trattare la minaccia iraniana come un problema internazionale. Ma non c’è modo di sfuggire al ruolo storico di Israele: smontare le illusioni in cui si culla l’occidente nella sua apatia collettiva. Il messaggio di Israele deve essere (e non solo negli incontri in privato fra capi di stato) che Stati Uniti ed Europa insieme tuttora possono e devono impedire all’Iran di diventare il primo regime terrorista dotato di bomba atomica.

(Da: Jerusalem Post, 11.03.08)

Nella foto in alto: Un’immagine del 2007 del reattore nucleare iraniano di Bushehr.