La diciassettesima Knesset

E' stato più volte affermato che le elezioni israeliane costituivano anche una sorta di post-referendum sul ritiro dalla striscia di Gaza.

M. Paganoni per Nes n. 3/4, anno 18 - aprile 2006

image_1161Come sarà la 17esima Knesset, eletta lo scorso 28 marzo? Il risultato finale è noto. Grazie anche al quorum d’ingresso, elevato da 1,5 al 2%, sono entrate in parlamento dodici liste, contro le tredici delle precedenti elezioni (28.1.03). I 120 seggi risultano distribuiti in questo modo: 29 al nuovo partito di centro Kadima, fondato da Ariel Sharon nel novembre 2005; 19 ai Laburisti guidati da Amir Peretz; 12 rispettivamente al Likud, crollato ai minimi storici, e agli ultra-ortodossi sefarditi dello Shas; 11 a Israel Beiteinu, il partito “russo” di Avigdor Lieberman; nove alla lista di destra che per la prima volta a visto correre insieme Unione Nazionale e il Partito Nazionale Religioso; ben sette seggi all’esordiente Partito dei Pensionati; sei agli ultra-ortodossi askenaziti di Ebraismo Unito della Torah; cinque seggi alla sinistra sionista del Meretz; quattro alla Lista Araba Unita e infine tre ciascuno alle altre due liste “arabe”, Hadash e Balad.

Esattamente un terzo degli eletti è composto da neoparlamentari alla prima esperienza: di questi, ben dieci della lista Kadima, seguiti dagli otto della lista Israel Beitenu. Ma il vero record è quello del Partito Pensionati, del quale sono esordienti tutti i sette deputati. Al contrario, nessun esordiente dalle liste Likud, Unione Nazionale-Partito Nazionale Religioso e Balad. Per il Meretz, Yossi Beilin rientra in parlamento dopo esserne rimasto fuori per una legislatura.
Nella nuova Knesset siederanno 16 parlamentari donne, contro le 18 della Knesset precedente. Kadima porta in parlamento la delegazione femminile più numerosa (sei), seguita dalle cinque parlamentari laburiste. Nessuna donna è stata eletta da Unione Nazionale-Partito Nazionale Religioso, partiti arabi, partiti ultra-ortodossi.
La maggioranza dei parlamentari (73) risulta di origini askenazite, a fronte dei 34 di origine mediorientale o nordafricana. Gli altri 14 sono arabi (di cui 10 eletti nelle liste arabe). Gli arabi israeliani erano dieci in tutto nella Knesset precedente.
Nei banchi siederanno 34 parlamentari religiosi o ultra-ortodossi, pari a circa il 30% dei seggi, contro i 30 della passata legislatura.
Diciotto eletti (15%) vanta un Ph.D o il titolo accademico di professore: sei in Kadima, tre nei laburisti, uno ciascuno in Balad e Hadash.
Quattordici eletti sono stati alti ufficiali nelle Forze di Difesa israeliane. Tra loro, un ex capo di stato maggiore (Shaul Mofaz di Kadima), un ex vice capo di stato maggiore (Matan Vilnai dei laburisti), due ex capi dei servizi di sicurezza Shin Bet (Avi Dichter di Kadima e il laburista Ami Ayalon), un ex capo dell’istituto di intelligence Mossad (Danny Yatom dei laburisti).
Quindici parlamentari sono neoimmigrati o comunque percepiti come immigrati relativamente recenti, compreso il “russo” Avigdor Lieberman (Israel Beitenu), israeliano dal 1978.
Solo otto parlamentari vivono in insediamenti (quattro eletti nella lista Unione Nazionale-Partito Nazionale Religioso, tre in Israel Beitenu e uno in Kadima). Due vivono in kibbutz (Haim Oron del Meretz e Orit Noked dei laburisti), uno in un moshav (il laburista Shalom Simhon).

È stato più volte affermato che queste elezioni costituivano anche una sorta di post-referendum sul ritiro dalla striscia di Gaza e di pre-referendum su futuri ritiri da ampie parti della Cisgiordania. Se è così, qual è stato l’esito? Le due liste che hanno centrato la campagna elettorale sul rifiuto del disimpegno (Likud e Unione Nazionale-Partito Nazionale Religioso) hanno ottenuto 21 seggi (ne totalizzavano 51 nella Knesset precedente). A mezza strada i religiosi di Shas ed Ebraismo Unito, che non si sono pronunciati con nettezza, e Israel Beitenu che, pur caratterizzandosi come ultra-nazionalista, non respinge il concetto di compromesso territoriale proponendone una sua versione (scambio di alcune parti dei territori abitate da israeliani contro alcune parti di Israele abitate da arabi). I restanti 70 parlamentari sono favorevoli o comunque non contrari al concetto di separazione dai palestinesi mediante spartizione territoriale, anche se solo 60 sarebbero quelli esplicitamente favorevoli al disimpegno unilaterale prospettato dal Kadima di Ehud Olmert con il suo piano di “convergenza”: concentrare gli insediamenti in pochi grandi blocchi a ridosso della Linea Verde.
In questo senso, il verdetto delle urne appare abbastanza netto. Se la politica di Sharon-Olmert avesse tanto sdegnato gli israeliani, nota Saul Singer (Jerusalem Post, 30.03.06), i partiti ad essa espressamente contrari avrebbero preso qualcosa di più del 17,5% dei seggi.
Di più. Il risultato del “referendum” è tanto più netto dal momento che l’elettorato israeliano lo ha quasi snobbato. La bassa affluenza alle urne (63,2 %) e il successo delle formazioni che hanno posto al centro della propria agenda i temi economico-sociali (Laburisti, Shas, Pensionati) indicano che per gli israeliani i concetti di separazione e spartizione territoriale, pur nel contesto di una diffusa sfiducia nella concreta possibilità di un accordo di pace definitivo, sono oggi ampiamente acquisiti. Gli elettori israeliani, hanno scritto Jerrold Kessel e Pierre Klochendler su Ha’artez (30.03.06), si sono dimostrati contemporaneamente favorevoli al concetto di separazione e già una elezione avanti rispetto ai politici. Nel senso che si sono già focalizzati sulle questioni interne economiche e sociali, prendendo alla lettera il messaggio collegato ai propositi di ritiro di Olmert: e cioè che il paese debba infine “raccogliersi” dietro confini definiti e sicuri, entro i quali concentrarsi sul tema: quale Israele vogliamo per noi e i nostri figli?
Questo significa che i nodi della sicurezza nazionale e del processo di pace sono scomparsi dall’orizzonte politico israeliano? Certamente no, e basterebbe ricordare i lanci di Qassam, la mai cessata minaccia di stragi, i jihadisti al potere nell’Autorità Palestinese, la penetrazione di al-Qaeda in Giordania e territori, la spada di Damocle iraniana.
Ma oggi l’elettore israeliano ha l’impressione di poter influire ben poco su tutto questo con le proprie scelte politiche, e nella sua maggioranza si è convinto che, a questo punto, la posizione del proprio governo nel conflitto medio-orientale sia praticamente obbligata. Rivelatasi illusoria l’idea di arrivare a un accordo territoriale coi palestinesi e velleitaria quella di restare aggrappati indefinitamente ai territori, gli israeliani – come dice Shlomo Avineri – non pensano più in termini di “soluzione del conflitto”, ma di “gestione del conflitto”. “E’ tramontata l’era delle grandiose cerimonie sul prato della Casa Bianca, che aveva entusiasmato tanti israeliani– scrive Dore Gold (Jerusalem Post, 31.03.06) – Nessuno promette più la fine della storia. Quello di cui si discute, invece, sono le dosi di una appropriata miscela di barriera difensiva, ritiri parziali, sgomberi su confini difendibili”. Questioni importanti, ma non tali da mobilitare né spaccare l’elettorato.