La gelida pace con l’Egitto

Un’illusione ottica l’idea che l’Egitto sia un paese moderato e pacifico

Da un articolo di Amir Oren

image_1730Nel 2007 non ricorre solo il 40esimo anniversario della guerra dei sei giorni. Ricorre anche il 30esimo anniversario della storica visita a Gerusalemme dell’allora presidente egiziano Anwar Sadat. La strepitosa vittoria israeliana del ‘67, con la sconfitta degli eserciti di tutti i paesi arabi circostanti e la conquista di grandi porzioni del loro territorio, si giustappone a un successo diplomatico ancora più grande: la rottura del compatto muro dell’ostilità araba.
In entrambi i casi, tuttavia, l’iniziale entusiasmo si è gradualmente trasformato in delusione, mentre restavano incompiute le promesse che sembravano insite nei risultati di breve periodo.
L’idea che l’Egitto sia un paese moderato e in cerca della pace costituisce un’illusione ottica. Il Cairo, che ha acquistato il biglietto d’accesso a Washington passando per Gerusalemme, ancora una volta non è affatto entusiasta di far parte del campo affiliato agli Stati Uniti. La popolazione egiziana, che non è ansiosa di essere direttamente coinvolta in una guerra, incoraggia piuttosto la guerra dai margini del campo.
Il risveglio di Israele dall’illusione di una positiva influenza egiziana sui palestinesi è iniziato da sette anni, dal summit di Camp David 2000 fino al caos di oggi alla frontiera fra Egitto e striscia di Gaza sotto il governo di Hamas.
Persino durante il diciannove anni di governo militare su Gaza (1948-1967), l’Egitto si preoccupava più della Palestina che dei palestinesi. A differenza del regno hashemita, che aveva annesso la Cisgiordania e aveva intrapreso un processo di “giordanizzazione” dei palestinesi, l’Egitto si guardò bene dall’aggiungere i profughi di Giaffa e gli abitanti di Khan Yunis alle decine di milioni di poveri egiziani. Nello scambio di prigionieri che fece seguito alla guerra dei sei giorni, le Forze di Difesa israeliane rilasciarono migliaia di soldati che avevano prestato servizio nelle brigate palestinesi dell’esercito egiziano e cercarono di trasferirli sulla sponda occidentale del Canale di Suez. Ma l’Egitto non ne volle sapere di accogliere i palestinesi rilasciati e pretese che fossero scaricati nella striscia di Gaza.
La promettente idea di uno scambio di territorio fra Sinai, Negev, Gaza e Cisgiordania può darsi che abbia avuto qualche chance di successo nell’era di Sadat, o all’apice del processo di Oslo. Ma da allora è completamente evaporata. L’Egitto non intende contribuire con un granello di sabbia, né una goccia di sudore, né una goccia di sangue all’avanzamento della pace. Nel migliore dei casi, continuerà a barcamenarsi nell’attuale impasse. Lo scenario più realistico è che, dopo Hosni Mubarak, l’ostilità finora repressa verrà attivamente a galla.
Paradossalmente la causa di tutto questo è la democrazia. Certo, non il modello americano di democrazia (giacché gli sforzi per istillarlo al Cairo sono falliti esattamente come sono falliti a Damasco, a Riad e in ogni altra capitale araba), bensì la sua versione demagogica, quella che si ritrova nelle culture politiche in cui un regime rigido e autoritario rifiuta di mollare la sua esclusiva e i suoi privilegi, ma non vuole nemmeno sfidare inutilmente la propria gente.
Che il regime egiziano, o una parte di esso, sia sceso a patti con Israele è un fatto diplomatico che il pubblico egiziano non può cancellare. Tuttavia, quel pubblico ha abbastanza forza da mantenere gelide le relazioni con Israele, confinate nella stanze ad aria condizionata dove si incontrano i diplomatici. Tutti i sondaggi d’opinione mostrano che l’Egitto, il più grande paese arabo, quello con la forza militare più potente e moderna, è anche il paese arabo più ostile a Israele, Stati Uniti e occidente. Non si tratta di interpretazioni cavillose o mode passeggere. I dati sono inequivocabili, e agghiaccianti quanto può esserlo un uragano di fanatismo e di pregiudizio religioso.
Il mese scorso la commissione affari esteri della Camera dei rappresentanti americana ha ricevuto i risultati di un’indagine internazionale condotta dall’Università del Maryland. La ricerca ha esaminato l’opinione pubblica in quattro paesi islamici: Marocco, Egitto, Indonesia e Pakistan. Ebbene, per ogni quesito l’Egitto risultava in testa: dall’opporsi alla presenza americana in Medio Oriente all’appoggiare gli attentati anti-americani (più del 93%), all’accusare agli Stati Uniti di aggressione contro l’islam nella sua interezza (e non solo contro al-Qaeda, i talebani e Saddam Hussein). Anche coloro che esprimono riserve sulle attività di al-Qaeda, in particolare sul suo prendere di mira i civili, ammirano però l’audacia della jihad globale che affronta l’America all’insegna della difesa dell’”onore islamico”. Molti dubitano addirittura dei fatti dell’11 settembre e attribuiscono ad effetti speciali hollywoodiani ciò che hanno visto coi loro occhi e che lo stesso Osama bin Laden ha descritto nei suoi discorsi video-registrati. Israele, naturalmente, viene denigrato come un collaboratore e un protetto.
La pentola di odio che fuma sotto il regime minaccia, se dovesse bollire fuori, di far saltare il coperchio, e con esso anche la pace con Israele. Le minacce alla sicurezza che ne deriveranno non porteranno automaticamente a una nuova, sesta guerra fra i due paesi. Ma non vi sarà certo una pace più profonda né più ampia di quella che oggi regna ai confini sud-occidentali di Israele.

(Da: Ha’aretz, 6.06.07)