La Libia, gli ebrei e la “seconda primavera araba”

Il coinvolgimento degli islamisti nella rivolta anti-Gheddafi non promette bene.

Di Alex Joffe

image_3224Vi sono ottime ragioni perché gli ebrei guardino con soddisfazione alla caduta di Muammar Gheddafi: un eccentrico e pericoloso nemico dell’occidente e di Israele è sull’orlo della sconfitta, mentre il popolo libico potrebbe trovarsi alle soglie della libertà. Tuttavia, come in Egitto, questa seconda “primavera araba” in Libia sembra buona solo a metà. Un test per capirla sarà il modo in cui il nuovo governo tratterà gli ebrei e Israele.
La Libia storicamente è luogo di conquiste e di rivolte. Gli ebrei vi giunsero ben prima degli arabi, e a maggior ragione prima dell’islam. Si narra che Tolomeo I abbia insediato ebrei in Libia nel 312 a.e.v., altri ne arrivarono 150 anni dopo. Gli ebrei libici di Tripolitania, a ovest, e di Cirenaica, a est, divennero agricoltori nelle campagne, artigiani e aristocratici nelle città. Mentre romani, cristiani, arabi e islam si avvicendavano in Libia e nord Africa, gli ebrei rimanevano. Con l’avvento dell’islam, pare che gli ebrei della costa si siano dispersi verso l’interno. Il loro numero crebbe con l’arrivo di profughi dalla Spagna e dall’Italia. Patirono o prosperarono sotto diversi governanti musulmani.
La conquista italiana della Libia nel 1911 portò inizialmente agli ebrei libici eguali diritti, ma successivamente quei diritti vennero erosi dall’alleanza dell’Italia con la Germania e dall’imposizione delle leggi razziali del 1938. Durante la seconda guerra mondiale, il controllo sul nord Africa passò più volte fra Italia e Gran Bretagna. Ad ogni rovescio britannico, la situazione degli ebrei peggiorava. A migliaia vennero deportati nei brutali campi di internamento e lavori forzati nel deserto. Gli inglesi liberarono il paese nel 1942, ma l’effetto paradossale fu una nuova fase di persecuzioni che portò alla fine della comunità ebraica. Nel 1945 un’ondata di pogrom musulmani causò la morte di centinaia di ebrei e la distruzione di case, negozi e sinagoghe sotto gli occhi delle truppe d’occupazione britanniche. Alla soglia dell’indipendenza libica, nel 1951, il primo ministro Mahmud Muntasser parlò molto francamente dicendo che non vedeva “alcun futuro” per gli ebrei in Libia. Fra il 1949 e il 1951, circa 30mila ebrei libici abbandonarono le loro antiche case alla volta di Israele.
Con l’ascesa del nazionalismo arabo e dello stato di guerra permanente contro Israele, gli ottomila ebrei rimanenti vennero sistematicamente spogliati di tutti i loro diritti in quanto cittadini libici. Vietato detenere passaporto, visitare Israele, lavorare negli uffici pubblici. Scuole e organizzazioni comunitarie ebraiche vennero chiuse. Agli ebrei venne impedito l’ottenimento del certificato di cittadinanza necessario per lavorare nel commercio, e nel 1961 il governo confiscò tutte le proprietà degli ebrei emigrati in Israele. Dopo la guerra dei sei giorni del 1967 una nuova ondata di pogrom culminò nell’espulsione definitiva degli ebrei che ancora rimanevamo in Libia. Come nel resto del mondo arabo e islamico, per gli ebrei quella prima “primavera araba” degli stati indipendenti si tradusse in una vicenda dolorosa e fin troppo famigliare. All’inizio, anche l’improvvisa ascesa di Muammar Gheddafi sembrò assai familiare.
La versione ufficiale è che Gheddafi, membro di una piccola tribù berbera arabizzata, crebbe in una tenda. Come molti membri tribali di bassa estrazione, trovò nell’esercito la strada per il potere. E, similmente ad altri membri tribali come Saddam Hussein e Hafez Assad saliti al potere in Medio Oriente nell’epoca d’oro del nazionalismo arabo, Gheddafi trovò negli ebrei e in Israele una utile ossessione. Gli uomini forti ispirati da Gamal Nasser consideravano le sconfitte storiche del 1948 e del 1967 come epiche umiliazioni. In nome dell’imperativo di cancellare l’onta e ripristinare l’onore, trasformarono le loro società in stati di polizia nei quali le loro rispettive tribù la facevano da padrone. In questo contesto il golpe militare guidato da Gheddafi nel 1969 era roba di routine. Ma Gheddafi era diverso. A differenza dei suoi colleghi tiranni, vedeva se stesso come un rivoluzionario mistico. All’inizio la sua “filosofia” era una sorta di socialismo islamico. Ma col passare dei decenni si snodò dall’arabismo all’islamismo all’africanismo. Eclettica anche la sua scelta dei nemici. Si rivolse contro l’egiziano Anwar Sadat e il principe Hassan del Morocco quando quei due paesi fecero pace con Israele. Quando l’Olp iniziò a negoziare con Israele nel 1995, espulse decine di migliaia di palestinesi. Ma combatté anche guerre di confine con il Ciad, la Tunisia, l’Algeria e il Niger. Il suo sostegno al terrorismo fu altrettanto ampio e fluttuante. I suoi agenti fecero saltare in aria militari americani in Germania, sostennero l’IRA, uccisero una poliziotta britannica a Londra, e nel 1988 fecero esplodere il volo Pan Am 193 sopra Lockerbie in Scozia. Gheddafi si scontrò con Arafat, ma sostenne l’Olp e Settembre Nero con milioni di dollari all’anno.
Persino l’atteggiamento di Gheddafi verso il conflitto arabo-israeliano sembrò lievemente mutevole. In un editoriale pubblicato nel 2009 sul New York Times propugnò la soluzione “a un solo stato”, ma dandole un tocco peculiare col nome di “Isratina” (Israele+Palestina). In realtà, la sua era la formula standard, completa del “diritto al ritorno” per i palestinesi, che preannuncia per definizione l’intenzione di cancellare Israele dalla carta geografica.
Gheddafi era, in fin dei conti, la tipica immagine del cattivo da cartone animato, con la capigliatura incolta, le uniformi smarginati, le amazzoni come guardie personali, i monologhi senza fine. La cosa stupefacente era che questo vero e proprio modello di dittatore megalomane e narcisista da operetta venisse considerato tutt’altro: tale è il potere del petrolio, della minaccia del terrorismo, il prodigio della teatralità e la fascinazione degli occidentali colti per i modi strani dell’oriente.
Con il suo regime quasi tramontato, crescono le speranze che il nuovo governo dia vita a una Libia democratica. Sono circolate notizie di uomini d’affari ebrei libici che avrebbero sondato i ribelli circa un riconoscimento di Israele. Ma il ruolo prominente degli islamisti nella ribellione non è un segnale promettente, e non ci sono molti segnali che i nuovi leader libici siano meglio disposti verso gli ebrei e Israele di quanto fosse Gheddafi. Una piccola avvisaglia ci arriva da come sta cambiando la narrazione de “ricco parente pazzo” del mondo arabo: non appena il regime di Gheddafi ha iniziato a vacillare, hanno iniziato a circolare storie su una sua nonna ebrea.
E così la Libia entra in una nuova era. Per mesi, armi di Gheddafi e auto rubate libiche sono passate in Egitto, Sinai e Gaza. Cosa ne sarà delle sue armi pesanti e non convenzionali non è dato sapere. Altri segnali non promettono bene. I militari egiziani appaiono di giorno in giorno più islamisti. La Fratellanza Musulmana e altri gruppi si fanno sempre più audaci con le loro richieste. Gli islamisti sono in aumento in Tunisia, luogo di nascita della “primavera araba”, e aspettano dietro le quinte in Algeria, Marocco e Giordania. Una prospettiva triste ma realistica è che questa seconda “primavera araba” stia rapidamente conducendo ad un freddo e amaro inverno. Sarebbe particolatamente penoso se alla fine Gheddafi dovesse essere rimpianto come il demonio che perlomeno conoscevamo.

(Da: Jerusalem Post, 4.9.11)

Nella foto in alto: Alex Joffe, autore di questo articolo