La “Naqba” degli ebrei del Marocco

Furono di più gli ebrei costretti a fuggire dai paesi musulmani che gli arabi palestinesi fuggiti dall’appena nato Israele: una storia che è stata troppo poco ricordata e raccontata

Di Lela Gilbert

image_2829Immaginate una bambina di sei anni spaventata che cerca di trovare l’equilibrio nella stiva soffocante e affollata di una nave che dondola violentemente. Non è sola nel mare turbolento: i suoi genitori e fratelli sono vicini. Ma la paura è nell’aria, insieme alla vista e all’odore terribile di vomito. La bambina capisce poco delle circostanze in cui si trova. Sa che sta andando in un posto che si chiama Israele, dove ora vivono tre dei suoi fratelli. Si rende conto che sta dicendo addio per sempre alla sua casa in Marocco. Ma è tutto quello che sa del suo viaggio.
Nel frattempo, la sua attuale infelicità, e quella della sua amata famiglia, eclissano tutto il resto. La bambina si chiama Dina Gabay. L’anno è il 1955. Dina, i suoi genitori – Avraham e Rachel – e la loro famiglia stanno fuggendo dai sempre maggiori pericoli della loro città di Sefrou, vicino a Fez.
Solo più tardi Dina arriverà a comprendere la pressione costante che i suoi genitori avevano subito prima della partenza. C’erano piccole cose, insulti e intimidazioni continue. Per esempio suo padre, che possedeva una grande e redditizia macelleria, era alla mercé dei malviventi locali, che a volte semplicemente entravano nel negozio ed esigevano che desse loro tutto quello che volevano, senza pagare. “Non una volta e non due volte – spiega Dina – m a ogni volta che volevano qualcosa. Questi erano i nostri buoni vicini musulmani, sapete?”. Avraham sapeva che non era il caso di discutere. “Se dicevi qualcosa che a loro non piaceva, eri in pericolo – ricorda Dina – La maggior parte del tempo tutti abbozzavano. Quando ti trovi a un livello basso della società, non hai il coraggio di difenderti”.
C’erano anche minacce più serie, tra cui misteriose scomparse. Prima sparì il migliore amico di suo padre. Poi una delle cugine di Dina, una bellissima ragazza di 14 anni: scomparve anch’essa, e non fu mai rivista. Nella comunità ebraica marocchina queste cose non erano del tutto insolite. E avvenivano sempre più frequentemente dopo il 1948, quando Israele dichiarò l’indipendenza. Da quel momento l’oppressione secolare, degradante che gli ebrei avevano subito nel loro ruolo di dhimmi (“protetti sottomessi”) sotto il dominio musulmano si trasformò in scontri violenti, umiliazioni e attacchi casuali. Episodi che talvolta esplodevano in veri e propri pogrom in cui centinaia di persone venivano ferrite o uccise. Un articolo pubblicato nel settembre 1954 dalla rivista Commentary descriveva le difficili condizioni degli ebrei del Marocco durante i primi anni della vita di Dina Gabay Levin. “Nelle controversie con i musulmani, o su problemi commerciali e criminali tra di loro, gli ebrei sono quasi interamente sottoposti ai tribunali islamici… Perfino nelle circostanze migliori [i tribunali] considerano i litiganti ebrei esseri sporchi e inferiori”.
Mentre la famiglia di Dina subiva crescenti pressioni da parte della comunità musulmana circostante, il Marocco stesso era in tumulto politico per il colonialismo francese. Come è spesso accaduto nei movimenti di indipendenza anticoloniali, gli ebrei venivano stigmatizzati come nemici delle nascenti fazioni nazionaliste. Di nuovo, erano loro a pagare il prezzo.
Nel 1954-55, gli ebrei del Marocco furono aggrediti da forze pro-nazionaliste a Casablanca, Rabat, Mazagan e Petitjean, con numerosi morti e feriti. In tutto il paese le proprietà degli ebrei furono confiscate, e le scuole ebraiche incendiate. Nei cinque anni che seguirono l’indipendenza di Israele, circa 30.000 ebrei fecero l’aliyà (immigrazione in Israele). Il numero crebbe negli anni successivi.
Scrisse lo storico Heskel M. Haddad: “La causa principale dell’esodo degli ebrei dal Marocco sta nei due pogrom del 1948 e del 1953. In pochi anni, parecchie migliaia di ebrei marocchini immigrarono in Israele. Ma l’immigrazione di massa in Israele degli ebrei dal Marocco avvenne nel 1954 quando fu chiaro che la Francia intendeva concedere piena indipendenza al Marocco. Decine di migliaia di ebrei lasciarono il Marocco, attestando così la tipica angoscia degli ebrei in un paese arabo indipendente.”
“Lasciammo tutte le nostre proprietà – ricorda Dina – la nostra casa e il lavoro di mio padre. Non potemmo portare nulla con noi. Partimmo di notte e ci affrettammo alla nave. Scappava ogni genere di persone. Alcuni di quelli che andavano in Israele erano benestanti. Mio zio, per esempio, era molto ricco. Era un carpentiere e aveva una grossa fabbrica. Aveva anche costruito una scuola per bambini ebrei, che era di sua proprietà. Quando decise di partire, perse tutto: la casa, la fabbrica e la scuola”.
Come in molte comunità ebraiche che nel XX secolo fuggirono dall’ostilità delle nazioni a maggioranza musulmana, numerosi ebrei che lasciarono il Marocco erano stati leader nelle loro comunità: erano facoltosi, di successo e avevano uno stile di vita comodo. C’erano medici, avvocati, mercanti e banchieri tra le masse atterrite che abbandonavano la loro patria. Il giorno della loro partenza è stato spesso descritto come la loro Naqba, la parola araba per “catastrofe” che è spesso usata dagli attivisti arabi e palestinesi per descrivere il giorno della nascita di Israele. Nella loro precipitosa partenza dalle loro case (molte famiglie vivevano in nord Africa sin dal XV secolo e alcune anche da prima), la maggior parte degli ebrei maghrebini persero tutto meno i panni che avevano addosso. In un drammatico rovesciamento delle sorti, si trovarono tra i più poveri dei poveri.
Dopo il terribile viaggio (non ricorda quanto durò,ma le sembrò interminabile), Dina e la sua famiglia furono portati dalla nave in una squallida tendopoli: una delle molte ma’abarot (campi profughi) dove decine di migliaia di profughi dal Maghreb si ritrovavano in condizioni quasi invivibili al loro arrivo in Israele. La giovane nazione, che non aveva neanche dieci anni, non era ancora pronta per un tale afflusso di profughi. La famiglia Gabay provò una desolazione assoluta. “Ogni notte avremmo voluto solo scappare, ma non c’era nessun posto dove andare”.
Un rapporto dell’Agenzia Ebraica descrive le ma’abarot dell’epoca. La struttura dei campi era sostanzialmente simile: le famiglie vivevano in piccole baracche di stoffa, latta o legno, non più grandi di 10-15 metri quadrati. Altre baracche ospitavano i servizi principali: asilo, scuola, infermeria, una piccola drogheria, ufficio collocamento, sinagoga ecc. Le abitazioni non erano allacciate né con l’acqua né con l’impianto elettrico. L’acqua corrente era disponibile dai rubinetti centrali, ma doveva essere bollita prima d’essere bevuta. Le docce e i bagni pubblici erano generalmente inadeguati e spesso mal funzionanti. La scarsità di insegnanti e di risorse educative ostacolava gravemente i tentativi di fornire un’istruzione adeguata ai bambini dei campi. Il lavoro, anche quello assistenziale, non era sempre disponibile.
C’erano decine di migliaia di marocchini nelle ma’abarot, ma non solo. Era in atto in tutto il Maghreb una specie di esodo complessivo. Presto le vibranti comunità ebraiche del nord Africa si sarebbero ridotte quasi a nulla. Nel 1948 l’Algeria aveva circa 140.000 ebrei: nel 2008 non ce n’erano più. Nel 1948 la Libia aveva più di 35.000 ebrei: oggi non ce ne sono. Nel 1948 la Tunisia aveva ben 105.000 ebrei: oggi ce ne sono meno di 2000. Per quanto riguarda il Marocco, nel 1948 c’erano circa 250.000 ebrei: oggi ce ne sono meno di 6.000.
Nonostante il trauma, molti marocchini si distinsero nella loro nuova società israeliana. Lo scrittore Yehuda Grinker scrisse di loro: “Questi ebrei costituiscono l’elemento umano migliore e più adatto per inserirsi nei centri di assorbimento di Israele. Ho trovato in loro molti aspetti positivi: prima di tutto, conoscono i (loro compiti) agricoli e il loro passaggio al lavoro agricolo in Israele non implica difficoltà fisiche e psicologiche. Si accontentano di poche (esigenze materiali), il che permetterà loro di affrontare i primi problemi economici”.
Dopo tre mesi nel centro di assorbimento, la famiglia si riunì ai tre fratelli di Dina, che erano andati in Israele a 13, 15 e 17 anni. Ormai i ragazzi avevano più di 20 anni e avevano servito nell’Hagana (forze di difesa) durante la guerra d’indipendenza. Quando la famiglia fu riunita, andarono a vivere insieme a Rishon Lezion.
Da bambina difficilmente Dina avrebbe potuto immaginare lo sviluppo di tutti questi eventi. Ma, come tanti altri tra gli emigranti del suo paese, si sposò, ebbe una famiglia e si dimostrò più che adatta alla vita in Israele. Anzi, divenne addirittura vice sindaco di Rishon Lezion, un ruolo che ha ricoperto fino al 2007. Oggi è ancora portavoce della città e degli ebrei marocchini in Israele.
Per oltre mezzo secolo, la fuga di più di 850.000 profughi ebrei dai paesi arabi ha suscitato controversie sia in Israele che internazionalmente. Molti più ebrei furono costretti a fuggire dalle persecuzioni musulmane che non i circa 762.000 arabi palestinesi che lasciarono le loro case nell’appena fondato stato di Israele. L’intera storia è stata raccontata raramente, a parte le organizzazioni dedicate come http://www.justiceforjews.com , http://www.jimena.org e il David Project, che nel 2005 ha prodotto un energico documentario, “The Forgotten Refugees” (I profughi dimenticati). Per ragioni troppo complesse per questa breve analisi, Israele, come scrisse con tatto uno scrittore, “non mise nella sua agenda delle pubbliche relazioni nazionali e internazionali la catastrofe che aveva colpito gli ebrei arabi…”.
Ma tutto è cambiato lo scorso febbraio. Dopo anni di sforzi, alla Knesset è stato approvato un disegno di legge volto ad ottenere risarcimenti per gli ebrei dei paesi arabi. Zvi Gabay (nessuna parentela con Dina Gabay Levin), un reporter di Yisrael Hayom, scrive: “Per la prima volta dalla fondazione dello stato i diritti degli ebrei dei paesi arabi ricevono un riconoscimento legale in Israele. Finora le amministrazioni israeliane avevano deciso di ignorare il problema, anche se l’argomento dei profughi arabi e dei loro diritti è stato al centro del dibattito pubblico in Israele e nel mondo, sotto alla voce ‘diritto al ritorno’. È venuto il momento di raddrizzare la situazione”.
Secondo la nuova legge, è definito “profugo ebreo” un cittadino israeliano che abbia lasciato uno degli stati arabi, o l’Iran, in seguito a persecuzioni religiose. Il documento, una pietra miliare a lungo attesa da quanti avevano lottato per la sua approvazione, specifica che la questione del risarcimento deve essere inclusa dal governo in tutti i futuri negoziati di pace.
Dina Levin, come tanti altri, trova soddisfazione in tutto questo. Dice: “Questa nuova dichiarazione è un passo storico molto importante per il popolo di Israele, specialmente per le comunità ebraiche dei paesi musulmani. Spero che questa legge venga messa in atto e non rimanga solo una petizione di principio. In questo modo ci sarà finalmente giustizia per l’enorme numero di ebrei che dovettero lasciare tutti i loro bni nei paesi musulmani quando immigrarono in Israele”.

(Da: Jerusalem Post, 28.04.10)

In alto: la celebre foto scattata da Robert Capa nel 1949 in un campo di profughi ebrei giunti in Israele dai paesi arabi