La nazionalità palestinese e le dure repliche della storia

Riflessioni intorno a un illuminante lapsus di Abu Mazen

M. Paganoni per NES n. 7, anno 19 - luglio 2007

Miliziani islamisti palestinesi calpestano l’immagine del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel terminal di Rafah (alla frontiera con l’Egitto) durante i giorni del golpe di Hamas nella striscia di Gaza.

Tre giorni dopo aver destituito d’autorità il governo d’unità nazionale Hamas-Fatah guidato da Ismail Haniyeh e aver varato il governo d’emergenza affidato a Salam Fayyad, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) compariva lo scorso 20 giugno davanti al comitato centrale dell’Olp e pronunciava un discorso durissimo (Al-Hayat Al-Jadida, 21.06.07). Con parole di estrema severità, Abu Mazen denunciava il golpe di Hamas nella striscia di Gaza, le feroci brutalità commesse contro i palestinesi avversari, il complotto ordito contro la sua stessa persona, il piano per creare un “emirato dell’oscurantismo e dell’arretratezza”. A un certo punto, nella foga della requisitoria, l’erede di Yasser Arafat esclamava: “Persino le chiese non sono state risparmiate: è stata saccheggiata e data alle fiamme una delle più antiche chiese di Palestina che esisteva molto prima che arrivassimo noi”. Testuale: “molto prima che arrivassimo noi”. Ma noi chi?
Dopo averci ripetuto per anni e anni che il popolo palestinese è l’unico originario, l’unico che esiste come tale sulla terra di Palestina sin dai tempi dei cananei, tutt’a un tratto il loro massimo esponente politico dice “noi” per intendere i musulmani arrivati in quella regione con la conquista araba. Improvvisamente, la voce dal sen fuggita del leader dell’Olp, di Fatah e dell’Autorità Palestinese ci rivela che egli sa di essere il rappresentare di un’identità nazionale (“noi”) sopraggiunta e sovrapposta alle popolazioni e identità precedenti.
Nella spaccatura che si è consumata fra Gaza e Cisgiordania e nella durezza dello scontro in corso fra musulmani jihadisti e arabi nazionalisti, il lapsus di Abu Mazen non accade per caso, e ripropone un interrogativo legittimo anche se politicamente scorretto: quali autentiche radici può vantare l’identità nazionale palestinese?
Interrogativo reso ancora più drammatico e urgente dalla propensione delle leadership palestinesi, ormai storicamente dimostrata, a trascinare se stesse e la loro gente in scontri arabi intestini di inusitata violenza, da quelli del 1936-39, al disastro del settembre “nero” ‘70 in Giordania, alla guerra per bande in Libano e durante le due intifade. Non possono non venire in mente per analogia le guerre civili in Libano, in Iraq, in Sudan e i dubbi che sollevano sulla natura di quegli stati nazionali.
“In vari posti del mondo – scrive Ofir Haivry, del Shalem Center di Gerusalemme – confini arbitrariamente fissati dalle potenze coloniali delineano nazioni che in pratica non esistono. Esiste forse una “nazione sudanese” o una “nazione irachena”? O non stiamo piuttosto parlando in questi casi di tribù, gruppi e persino popoli diversi, con stili di vita e valori molto distanti fra loro, raggruppati a caso, e che a causa di questo pagano ancora oggi un alto prezzo di sangue?”.
Anche i confini del Mandato Britannico sulla Palestina, dal quale i palestinesi traggono il loro nome, vennero arbitrariamente fissati, come quelli dei paesi vicini, sulla base di interessi coloniali, in alcuni casi in modo del tutto fortuito. “Se il confine fosse stato fissato in modo appena un poco diverso – si domanda Haivry – forse che gli arabi di Marjayoun, nel Libano meridionale, sarebbero stati palestinesi? O gli arabi di Tarshiha, in Galilea settentrionale, sarebbero stati libanesi? E gli arabi di Transgiordania, che inizialmente faceva parte del Mandato sulla Palestina per diventare poco dopo regno di Giordania, sono palestinesi o giordani?”.
Il che, per inciso, configura il noto paradosso per cui, in quella regione, Israele, il paese che più di altri ha titoli di statualità nel radicamento storico-linguistico-culturale e nel diritto internazionale, è anche l’unico di cui venga messa sistematicamente in discussione la legittimità.
Il leader degli arabi del Mandato Britannico fu il mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini che si considerava un leader pan-arabo e si mise alla testa di una variegata alleanza di clan, tribù e interessi locali uniti per lo più dall’ostilità verso gli ebrei, imponendo il proprio comando con la violenza e l’assassinio dei rivali.
Dopo la fine del Mandato, nella striscia di Gaza sotto regime egiziano e nella Cisgiordania annessa alla Giordania non si registrò praticamente alcuna espressione culturale né alcuna rivendicazione politica di una originale identità nazionale palestinese. Nota Haivry: “Il solo obiettivo che riscuoteva consensi e spingeva all’azione, tanto che a tale scopo vennero create Fatah e Olp, era l’istituzione di uno stato arabo al posto di Israele”.
Dopo il 1967 l’unificazione di fatto sotto amministrazione israeliana creò l’illusione di un’identità nazionale unitaria. Ma le caratteristiche della leadership di Yasser Arafat non fecero che replicare quelle del mufti: autocrazia di un uomo solo, costruita sull’ostilità verso Israele, fondata su equilibri di clan e sulla persecuzione dei rivali.
I successivi ritiri di Israele – da tutti i maggiori centri abitati palestinesi, poi da tutta la striscia di Gaza – e la morte di Arafat hanno riportato il nodo al pettine. “Può darsi – riflette Haivry – che, quando uno stato esiste entro confini artificiali per un lungo periodo di tempo, abbia senso preservarlo nonostante sia privo di una genuina identità nazionale. Ma la Palestina Mandataria è durata solo trent’anni e ha cessato di esistere sessant’anni fa: l’odio verso Israele di per sé non può supplire alla mancanza di una consolidata identità nazionale, e questo dato di fatto dovrebbe indurci a porre nuove domande circa la vera natura del conflitto e i modi per risolverlo”.
Come ebbe a dire Golda Meir con grande schiettezza, “esistono dei profughi palestinesi, ma non esiste un popolo palestinese. La distinzione non è semantica. Lo dico sulla base di una vita intera passata a discutere con innumerevoli nazionalisti arabi che escludevano categoricamente dalle loro enunciazioni qualunque nazionalismo indipendentista arabo-palestinese” (New York Times, 14.01.76). Affermazione di una coerenza che ci pare esemplare. Se ad esempio – per assurdo – fra un po’ di anni, grazie a un’insistente campagna propagandistica (non coadiuvata in questo caso, e per fortuna, da fiumi di petrodollari né campagne terroristiche) dovesse diventare d’uso corrente riferirisi al “popolo padano” come ad una primigenia identità nazionale, chi scrive si sentirà in diritto e in dovere di ricordare che così non è, che si tratta di un artefatto, che milioni di persone vivono, è vero, nelle terre padane, e tuttavia non esiste nessun “popolo padano”.