La non-soluzione dei due stati

Chi sostiene la formula “a due stati” ha ottime ragioni, ma non bastano se non è in grado di rispondere in modo convincente a queste obiezioni

Di Martin Sherman

Martin Sherman, autore di questo articolo

Martin Sherman, autore di questo articolo

Uno dei paradossi più irriducibili del discorso politico sul conflitto arabo-israeliano è che le persone che sostengono il principio “dei due stati “dovrebbero esserne in realtà i più fieri avversari, stando perlomeno ai nobili valori morali e al progressivo pragmatismo politico a cui dicono di ispirarsi.

Difatti, anche ad un’analisi superficiale il progetto dei due stati si rivela non solo come un esercizio di assoluta futilità che non raggiungerà nessuno degli obiettivi dichiarati, ma anche una politica in contraddizione con se stessa destinata a fallire, anzi a realizzare molto probabilmente l’esatto contrario degli obiettivi che dice di proporsi.

Il progetto dei due stati è immorale, irrazionale e incompatibile con l’esistenza a lungo termine di Israele come stato nazionale del popolo ebraico. È immorale, perché creerà realtà che sono la totale negazione dei nobili valori invocati per la sua attuazione. È irrazionale, perché genererà esattamente i pericoli che vorrebbe prevenire. È incompatibile con l’esistenza a lungo termine di Israele come stato nazionale del popolo ebraico perché quasi inevitabilmente produrrà una mega-Gaza piazzata alla periferia dell’area metropolitana di Tel Aviv.

E’ immorale. Quasi sempre i fautori della soluzione a due stati ne rivendicano la superiorità morale in nome di nobili valori liberali, accusando i loro avversari di opporvisi per abietti motivi immorali. In realtà, date le condizioni socio-culturali che prevalgono praticamente in tutti i paesi arabi, e dati i precedenti che si sono visti nei territori palestinesi sgomberati da Israele, l’inesorabile risultato del concetto dei due stati non è difficile da prevedere: non c’è ragione di credere (e certamente i sostenitori della soluzione a due stati non ne hanno mai fornito una minimamente persuasiva) che qualunque futuro stato palestinese fondato su qualunque porzione di territorio sgomberata da Israele possa diventare qualche cosa di diverso dall’ennesima tirannia a maggioranza musulmana, omofoba e misogina. Perché mai una persona che dice di sostenere valori come il pluralismo politico, le libertà democratiche, l’uguaglianza di genere e la tolleranza in fatto di credo religioso e preferenze sessuali dovrebbe appoggiare una politica che avrebbe quasi certamente il risultato di sopprimere i principi etici che si ha tanto a cuore? In base a quale logica propugnare la creazione di una tale entità dovrebbe attestare una superiorità etica, o anche solo una qualche virtù morale?

Gaza 2014. Fucilazioni sommarie ad opera di Hamas. “Non c’è ragione di credere che qualunque futuro stato palestinese possa diventare qualche cosa di diverso dall’ennesima tirannia a maggioranza musulmana, omofoba e misogina”

E’ irrazionale. Non è solo sul piano dei risultati morali che il paradigma dei due stati costituisce una contraddizione che nega se stessa. Lo stesso vale sul piano dei risultati pratici che quasi certamente provocherebbe. E’ difficile dire cos’altro deve accadere perché si riconosca che la dottrina “terra in cambio di pace”, su cui si basa il concetto dei due stati, rappresenta una politica pericolosamente controproducente dal momento che si è rivelata tale in tutti i casi in cui è stata applicata: e non solo nel contesto arabo-israeliano, ma ogniqualvolta è stato fatto il tentativo di placare una tirannia aggressiva con concessioni politiche e ritiri territoriali. Ogni volta che si è applicata questa sventurata ricetta, essa anziché produrre la pace ha provocato più violenza e spargimenti di sangue. Ogni territorio che è stato ceduto al controllo arabo, prima o poi è diventato una base per lanciare nuovi funesti attacchi contro Israele. Lo è diventata immediatamente la striscia di Gaza; lo sono diventati nel giro di pochi mesi i territori di Giudea e Samaria (Cisgiordania); nel giro di alcuni anni il sud del Libano; dopo alcuni decenni il Sinai egiziano, che sta sprofondando nell’indescrivibile brutalità jihadista. Alla luce dei tristi precedenti forniti dai tentativi “terra in cambio di pace” fatti finora, sommati alle non meno tristi inclinazioni della società araba in generale e di quella palestinese in particolare, incaponirsi su questa formula è allo stesso tempo molto irrazionale e molto irresponsabile.

E’ incompatibile con l’esistenza d’Israele. Dunque, oltre ad esprimere un pio desiderio pericolosamente distaccato da qualsiasi realtà predominante e prevedibile, l’ostinata adesione al dogma dei due stati non ha alcun valore né sul piano dei suoi meriti morali, né su quello del pragmatismo politico. Ma c’è di peggio: è una strada incompatibile con l’esistenza a lungo termine di Israele. Per cogliere la sostanziale validità di una affermazione che può sembrare di portata eccessiva bisogna capire che oggi, con i cambiamenti intercorsi nell’ostilità araba, la maggiore minaccia esistenziale all’esistenza d’Israele come stato nazionale del popolo ebraico non proviene tanto da una classica invasione, quanto da un continuo, esasperato logoramento. La cosa è apparsa in tutta la sua evidenza nella guerra con Hamas a Gaza del 2014, quando i continui bombardamenti hanno provocato lo sgombero di intere comunità ebraiche dal sud di Israele. Senza prove convincenti del contrario, non vi è motivo di credere (né certamente di adottare come assunto di base) che la realtà del sud non debba ripetersi sul confine orientale d’Israele. Con alcune differenze agghiaccianti: il risultato più plausibile di uno sgombero di Israele da Giudea e Samaria è l’emergere di una sorta di mega-Gaza alla periferia stessa dell’area metropolitana di Tel Aviv e di altri importanti centri urbani della popolatissima piana costiera.

Tel Aviv vista (senza teleobiettivo) dalla Cigiordania. "

Tel Aviv vista (senza teleobiettivo) dalla Cisgiordania. “Qualsiasi esercito schierato in quelle aree, regolare o irregolare, potrebbe sconvolgere a piacimento la vita socio-economica nelle megalopoli costiere d’Israele”

Ma a differenza della striscia di Gaza che ha un confine di 51 chilometri e nessun vantaggio topografico sul territorio adiacente al di qua delle linee pre-‘67, la situazione in Giudea e Samaria sarebbe – a dir poco – pericolosamente diversa. Qualsiasi entità araba che vi venisse costituita avrebbe un fronte di circa 500 chilometri a ridosso della regione più popolosa di Israele, e si troverebbe in una posizione di assoluta predominanza topografica su più dell’80% della popolazione civile del paese, su vitali sistemi infrastrutturali (basti pensare all’aeroporto internazionale) e sull’80% delle sue attività economiche. Tutto ciò ricadrebbe all’interno della gittata delle armi che sono già state usate contro Israele dai territori sgomberati e trasferiti al controllo arabo. Questo cupo scenario non può essere liquidato come “allarmismo di destra” giacché non si tratta di altro che dei precedenti dettati dall’esperienza. Qualsiasi esercito schierato in quelle aree, sia regolare che irregolare, con armi facilmente reperibili a buon mercato potrebbe sconvolgere a piacimento la vita socio-economica nelle megalopoli costiere d’Israele, trasformandone la vita quotidiana in un logorio infernale.

Praticamente non vi sono dubbi sul fatto che, qualora Israele dovesse sgomberare da Giudea e Samaria, quei territori cadrebbero quasi certamente nelle mani di elementi come Hamas, o peggio. Il minimo che si può dire è che tale sbocco è altamente probabile. In effetti, l’unico modo per garantire che ciò che è accaduto a Gaza non si ripeta in Giudea e Samaria è che Israele mantenga il controllo militare di questo territorio, ed è questo che ostacola l’attuazione della formula dei due stati e la nascita di uno stato palestinese. Dati i gravi rischi, addirittura esistenziali, inerenti al paradigma dei due stati, notevolmente accresciuti dalla precaria posizione dell’attuale regime nella vicina Giordania minacciato da elementi islamisti in ascesa, non sarebbe molto più ragionevole cercare con determinazione alternative plausibili e durevoli che siano più morali, più razionali e più compatibili con la sopravvivenza dello stato nazionale del popolo ebraico?

(Da: Israel HaYom, 1.4.16)