La nuova poesia ebraica e la rinascita dell’ebraico

La relazione introduttiva alla giornata di studio tenuta a Milano il 12 maggio 2008 su “Sessant’anni di poesia israeliana”

di Ariel Hirschfeld

image_2117Lunedì 12 maggio 2008, presso la Sala Napoleonica dell’Università degli Studi di Milano, su iniziativa della Cattedra di Lingua e Letteratura Ebraica e dell’Associazione Italiana Amici dell’Università di Gerusalemme, si è tenuta una giornata di studi intitolata “Sessant’anni di poesia israeliana”, che ha visto la partecipazione dei poeti israeliani Shimon Adaf, Ori Bernstein, Maya Bejerano, Tali Latowicki.
Le relazioni sono state tenute dai professori Sara Ferrari, Genya Nahmany e Anna Linda Callow dell’Università di Milano; Ariel Hirschfeld, Yael Reshef e Ariel Rathaus dell’Università di Gerusalemme.
Pubblichiamo qui di seguito la relazione introduttiva di Ariel Hirschfeld.

“TOCCARE I LEMBI DEL SUO MANTELLO”
LA NUOVA POESIA EBRAICA E LA RINASCITA DELL’EBRAICO

La rinascita della poesia ebraica e quella della lingua ebraica furono prima di tutto un evento musicale. Il pubblico italiano forse non immagina una realtà culturale in cui la lingua si trova soltanto in una condizione visiva: una lingua che viene letta, in cui si scrivono commenti a testi antichi, ma che non è udita. Così era l’ebraico negli anni che precedettero la rivoluzione sionista, fino agli anni 80 e 90 del XIX secolo; una lingua di lettura, una lingua di segni e regole grammaticali, di preghiera e di comunicazione filosofica tra dotti, perfino una lingua di poesia, ma non una lingua parlata. La poesia che precedette le opere di Bialik e Tchenikhovski, i protagonisti della rinascita della nuova poesia ebraica, era la poesia dell’Illuminismo ebraico. Come nel caso della maggior parte degli altri usi dell’ebraico era una lingua di idee astratte. Essa si occupava del destino degli ebrei negli anni dell’esilio e del confronto tra religione e idee umanistiche mondiali, ma non poteva descrivere una realtà concreta, non poteva esprimere i sentimenti di un uomo, che non è un’idea; di un uomo moderno, vivo, complesso e lacerato. E soprattutto non poteva descrivere il parlato. L’esperienza del linguaggio, l’atto di parlare, il suono delle sillabe ebraiche, della melodia della frase, degli stati d’animo. Tutto ciò era fuori dalla portata della poesia ebraica. La poesia, e di fatto tutta la lingua ebraica, rimanevano come un avvenimento puramente intellettuale, come un mezzo cerebrale, senza alcun contatto con la sfera che, dall’avvento del Romanticismo, era considerata il centro e il fondamento dell’essenza umana: l’anima.
La rinascita della poesia ebraica, e con essa del nuovo nazionalismo ebraico, furono prima di tutto un evento musicale. Una delle prime poesie di Bialik, degli anni 90 del XIX secolo, produsse nella cultura ebraica uno shock che è difficile ora immaginare, e non solo per chi sia estraneo a questa cultura. Una poesia come Al mio ritorno:

Di fronte a me v’è di nuovo un vecchio consunto
un viso rinsecchito e rugoso
l’ombra di una pagliuzza secca, tremulo come una foglia
errabondo tra pagine di libri.

Di fronte a me v’è di nuovo una vecchia consunta
che tesse e sferruzza calze
la sua bocca è piena di invettive e maledizioni
e le sue labbra non cessano di muoversi.

Questa poesia che lega un’esperienza di ritorno alla casa dei genitori (che rappresenta, ovviamente, tutta la tradizione ebraica) a un suono intenso di parlato, a un’intonazione accentuata di ribrezzo, era un qualcosa che non si sentiva in lingua ebraica dall’epoca medievale, anzi, in realtà dall’epoca biblica. Bialik univa qui la forma del linguaggio autentico di un ebreo dell’Europa orientale alla metrica e al ritmo della poesia, e all’improvviso un ebreo poteva sentire ciò che un italiano o un tedesco sentivano già da centinaia di anni, che la sua lingua parlata poteva diventare arte e che l’arte si occupa della vita emotiva e della possibilità di esprimerla e non di idee lontane. Anche la poesia dell’Illuminismo ebraico seguiva le regole della metrica, ma di una metrica che non aveva alcun significato musicale in ebraico, una metrica italiana basata sul numero delle sillabe (endecasillabo, dodecasillabo ecc.). La poesia era ordinata, ma solo l’occhio lo percepiva, e non vi era alcun legame tra essa e l’orecchio. La metrica, il ritmo e i diversi suoni delle parole in Bialik erano ovviamente legati a un profondo cambiamento nella posizione della persona che parlava nelle poesie.
Se prendiamo come esempio la seconda strofa della poesia Al mio ritorno, l’immagine è il sorprendente rovesciamento del quadro di un incontro con un anziana madre che ci si aspetta la madre che sferruzza calze per i nipoti. In questa poesia essa è paragonata al ragno che tesse la sua tela e vi accumula cadaveri di mosche (nella quarta strofa). Ma l’immagine non è solo un’idea ma è un insieme di relazione e reazione, e tutto passa attraverso il suono che ritorna delle parole “tesse” e “sferruzza” e poi ” invettive e maledizioni” che esprimono il fatto che la vecchia quasi non capisce più ciò che fa, che le sue azioni sono automatiche, che è ormai delirante e incattivita, e dalla sua bocca escono solo maledizioni. La musica della poesia trasforma il lettore da osservatore ad attore che impersona il ruolo complesso di figlio e imitatore insieme. Chi legge la poesia è concretamente costretto a muovere la bocca e il mento come lei, come se fosse colpito da una malattia degenerativa.
Mi dispiace di aver iniziato con una questione che si può ascoltare e comprendere veramente solo in ebraico, ma il principio che qui agisce sarà ben compreso proprio in questa sede, in un luogo dove l’Opera è stata uno strumento così vitale per il sorgere della nuova coscienza nazionale, attraverso la musica di Verdi. Perché la musica è stata lo strumento romantico più alto con il quale fu creato il concetto emotivo dell’identità nazionale. Le parole e la lingua sono state l’unico mezzo attraverso il quale gli ebrei hanno espresso in modo ininterrotto la propria creatività. Non avevano né la pittura, né l’architettura e perfino la musica era marginale e non poteva sostenere un efficace simbolismo nazionale. L’ebraico è stato per gli ebrei lo strumento principale nella creazione di una coscienza di popolo. Ma non aveva un suono. Dal momento in cui in quella lingua fu azionato il suono, essa si unì al tempo. Da quel momento ricevette tempo e luogo. E da quel momento si unì ai due poli opposti (e dipendenti tra loro) del tempo: l’individuo e la storia. Dal momento in cui l’ebreo può dire nella sua lingua ai due vecchi della poesia, il padre e la madre della nazione:

Non siete diversi dai vostri predecessori
è tutto trito e ritrito non c’è novità
verrò con voi, fratelli
marciremo insieme fino a puzzare

cambia completamente la posizione del singolo nei confronti del “popolo”. Da questo momento cambia il rapporto storico tra il singolo e il popolo nella storia dell’ebraismo; il singolo, anche se vede se stesso come una parte dell’”insieme”, osa manifestare la sua dura critica nei confronti della tradizione. Egli osa odiare, esprimere desiderio e disperazione. L’ascolto al suono dell’ebraico, la creazione della musicalità ebraica, segna la rinascita dell’eros in questa lingua. E in questa poesia il lettore di lingua ebraica sentiva già la reazione a catena che si produceva da questa rivoluzione musicale. Da questo momento in poi l’ebreo avrà, come individuo, un suo eros, una sua forza, un suo luogo, una sua terra. A quell’epoca si udì, in questo modo, la voce di un vero Rinascimento. Oggi c’è chi pensa che in quel momento per il popolo ebraico si aprirono le porte dell’inferno.
La nuova poesia ebraica, che iniziò il suo cammino con le poesie di Bialik e Tchenikhovski, si è rivelata una delle poesie più grandi dell’epoca moderna in tutto il mondo, e chi ha la fortuna di conoscere l’ebraico sa che la poesia dei nostri maggiori autori non solo non è inferiore a quella dei grandi della poesia occidentale del XX secolo, ma è un mondo dotato di una peculiarità e di una unicità sorprendente, e che questa poesia non è più un riflesso, per quanto brillante, di altre poesie (come quella araba, italiana, russa, tedesca e inglese che esercitarono grande influenza nelle generazioni precedenti a questo Rinascimento), ma è un corpo indipendente, che conduce un ricco dialogo con il proprio passato e con il mondo che lo circonda.
Ma proprio qui, in un luogo dove la consapevolezza di nazione si è sviluppata a partire da un’entità geografica che costituiva il simbolo centrale della coscienza nazionale, dove la terra aveva la funzione di madre mitologica dello Stato, bisogna sottolineare che nel Rinascimento ebraico furono la poesia e tutta la letteratura ebraica a svolgere la funzione di fondamento della nazione e dello Stato. “La lingua ebraica è il luogo su cui noi stiamo” disse Bialik, e la poesia era la prima nuova civiltà ebraica, ancora prima del Primo Congresso Sionista, settant’ani prima della fondazione dello Stato d’Israele.
La poesia ebraica, fino alla fondazione dello Stato, fu il mezzo primario nella formazione del nuovo ebreo. Fu una rivoluzione culturale di cui è difficile esagerare l’importanza per il popolo ebraico. La poesia fu il mezzo attraverso il quale avvenne “l’educazione sentimentale” dell’uomo e di tutta la cultura ebraica, poiché fu il luogo in cui furono formulate, talora realmente per la prima volta, delle emozioni in lingua ebraica. Infatti bisogna capire che nonostante l’ebraico sia una delle lingue più antiche della civiltà occidentale, quasi si congelò in epoca medievale. Il suo lessico non solo mancava di parole per descrivere la vita concreta dell’uomo moderno, ma (ed è la cosa più grave) mancava di parole per le emozioni. Non vi erano in essa parole per il dolore reale, per la gioia vera, per la disperazione, la depressione, la noia, il disgusto, per l’odio di uomini vivi. Aveva molte parole per l’estasi religiosa, e ancora di più per le lamentazioni e il lutto nazionale. Ma la sofferenza di un uomo per la morte della sua famiglia o di sua moglie non aveva parole, anzi, ancora meno, non vi era alcuna legittimazione culturale ad esprimere una simile afflizione in una lingua che era destinata solo ad argomenti sacri. I poeti furono quindi i principali artefici dell’arricchimento della lingua. Furono loro a trovare parole ebraiche per l’esperienza dell’uomo moderno e in questo modo crearono il vero forum in cui rinacque la lingua ebraica.
Una poesia come Sul massacro di Bialik, che fu scritta un giorno dopo il pogrom nella città di Kishnev durante la Pasqua ebraica del 1903, può costituire un esempio istruttivo del profondo cambiamento che subisce il linguaggio religioso ebraico a quell’epoca:

Cieli chiedete misericordia per me
se c’ è in voi un Dio, e verso il Dio che è in voi un sentiero
che io non conosco…

Qui troviamo le parole di preghiera tradizionali ebraiche: “Cieli chiedete misericordia per me”, ma subito dopo, con una svolta improvvisa, vengono due domande nuove, eversive: “se c’ è in voi un Dio, e verso il Dio che è in voi un sentiero”. Da esse scaturisce la posizione dell’ ebreo nuovo, distante da ogni certezza riguardo al legame tra lui e Dio. Non serve una spiegazione: una simile rabbia per l’ordine del mondo, una simile disperazione insieme al rifiuto di accettarla non si erano mai udite in questa lingua. Da questo momento ci furono parole per l’ira e la ribellione, anche se senza speranza, contro l’ ordine del mondo.
Non seguirò in questa sede lo svolgersi del complicato processo, peraltro estremamente interessante, di quell’educazione sentimentale ebraica che la nuova poesia ebraica creò. Ricorderò solo che i poeti di spicco fino alla nascita dello Stato di Israele si videro impegnati nel processo storico rivoluzionario che il popolo ebraico visse durante la rinascita sionista, capirono bene il loro ruolo vitale all’interno di esso e ne furono esplicitamente i leader spirituali, cosa di cui il pubblico di coloro che parlavano ebraico era conscio. La poesia di Bialik, anche dopo la sua morte nel 1934, continuò ad essere la colonna di fuoco della nuova coscienza nazionale e non vi era persona che avesse ricevuto un’istruzione in Terra di Israele la quale non conoscesse a memoria Sul massacro e allo stesso tempo anche una delle poesie liriche, intimiste di Bialik. I grandi poeti che sorsero nella generazione successiva a quella di Bialik: Uri Zvi Grinberg, Avraham Shlonski, Natan Alterman e la poetessa Lea Goldberg, accompagnarono con le loro opere gli anni difficili che precedettero la nascita dello Stato, gli anni della Seconda guerra mondiale e della Shoah, e riuscirono a creare una poesia che esprimeva con un’insolita potenza il trauma subito dall’ebreo in quel mondo nuovo. La nuova poesia ebraica diede prova di sé in circostanze esistenziali estremamente drammatiche in quegli anni e costruì una lingua che cresceva da radici antiche ed era capace di contenere e di esprimere ciò che di più terribile era dato descrivere in quell’epoca.
Desidero arrivare alla poesia ebraica più recente, quella che ha iniziato il suo cammino dopo la nascita dello Stato di Israele e continua a svilupparsi, tra l’ altro, nelle opere dei poeti che siedono con noi qui oggi. E’ chiaro che dopo la nascita dello Stato il posto della poesia è cambiato completamente, il suo compito politico, necessario per il processo nazionale, non era più richiesto, infatti dal momento in cui lo Stato nacque, esso fu uno Stato sotto ogni aspetto, divenne un meccanismo indipendente, forte e impersonale. Improvvisamente i poeti occuparono un’altra posizione, dissidente. Anche se non erano contrari all’idea sionista non esprimevano più l’esperienza di “insieme” della nazione, ma si volsero all’esperienza dell’uomo singolo, staccato, il cui mondo interiore non tocca più l’esperienza del popolo. Il poeta che esprime questa svolta nella forma più radicale e anche, va detto, geniale, è certamente Natan Zakh. Prendiamo come esempio l’inizio della sua nota poesia Un attimo (1962):

Un attimo per favore. Vi prego, io
voglio dire una cosa. Egli è venuto
ed è passato davanti a me. Avrei potuto toccare i lembi
del suo mantello. Non li ho toccati. Chi poteva
sapere ciò che non sapevo.

L’”io” unico, il singolo che non è ascoltato vuole dire una cosa. Che cosa vuole dire questo individuo? Vuole raccontare un fatto, un’occasione perduta. Avrebbe potuto toccare un “qualcuno” e non l’ ha toccato. Chi è questo qualcuno? L’ebraico ce lo svela attraverso il lessico: “i lembi del suo mantello”. Queste sono parole bibliche e il loro suono elevato è immediatamente percepibile. La prima si riferisce alla presenza divina, le seconde alla figura di Elia che sale al cielo. Il singolo definisce se stesso come chi non ha più un legame ovvio nei confronti del popolo, della lingua, della divinità. Non che il legame sia del tutto assente. Il legame c’è eccome. Ma è discreto, nascosto nel profondo ed espresso sotto voce. La poesia ebraica ha abbandonato la piazza della città.
Ma la dinamica intensa che c’è tra la poesia ebraica e la rinascita della lingua continua nella poesia di Zakh e in tutta la poesia attuale con la stessa forza! Anche in questa poesia: chi sa l’ebraico percepisce bene all’ inizio della poesia le sottili allusioni ai versetti della Bibbia. Quando si dice “Vi prego, io” il lettore sente risuonare le parole di Reuven nel libro della Genesi (37, 30): Il ragazzo non c’è e io dove vado? La cosa interessante è che l’allusione è solo sonora, le parole sono diverse. Ma proprio questo è il posto dell’ebraico antico all’interno dell’ebraico moderno parlato: una sorta di eco che rivela un’altra voce, profonda e lontana, ma importante e ben udibile. Colui che dice: “Vi prego, io / voglio dire una cosa” sente allo stesso tempo Reuven, il progenitore che vede la cisterna vuota e dice “dove vado”. Di nuovo la realtà dell’ebraico è musicale, e perciò psicologica e associativa.
Questa poesia di Zakh non è religiosa, nel senso che egli, come Bialik, non continua la consuetudine del tradizionale linguaggio religioso ebraico, ma non è neanche veramente laica, per lo meno nel senso di una completa separazione di stampo “esistenzialista” dal mondo della fede e dell’esperienza religiosa. Alla fine della poesia l’”io” dice:
A volte lo sento alzarsi
Nel sonno, sonnambulo come il mare, passarmi accanto, dirmi
figlio mio.
Figlio mio. Non sapevo che tu fossi con me fino a questo punto.

L’”egli” è Dio? E’ il padre? O è l’”egli” nel senso che Focault ha dato a questa parola: qui si trova tutto ciò che è “padre”, il non io, la lingua, ma è celato all’interno. “Lo sento alzarsi”. E’ un elemento vivo, anche se dormiente, recessivo all’interno dell’uomo che parla. E di nuovo, chiunque sappia l’ebraico, ben percepisce il lamento di Davide per morte di Assalonne alla fine della poesia, “figlio mio. / Figlio mio”. E questo è interessante: le parole compaiono in righe diverse e in un contesto così lontano. Ma basta la ripetizione della parola “figlio mio” due volte per far ricordare a chiunque parli l’ebraico l’antico lamento. Proprio sullo sfondo di questo lamento spicca particolarmente ciò che avviene, nella poesia, all’interno della coscienza dell’uomo: il padre (il Dio), che sembrava morto, si risveglia e scopre suo figlio vivo e impara qualcosa di nuovo sul loro passato, ora sa fino a che punto suo figlio era con lui. Fino a che punto la sua esistenza come Dio e come padre dipendeva da suo figlio. Adesso dall’interno dell’uomo e non dal roveto ardente, non per mezzo di una rivelazione miracolosa, Dio parla all’uomo e capisce di dipendere dall’uomo né più né meno di quanto l’ uomo dipenda da lui, e rivela all’uomo la propria solitudine.
Non c’è bisogno di un’altra conferenza per vedere quanto una poesia modernista come questa derivi dal nuovo linguaggio fondato nella poesia di Bialik Sul massacro e quanto esso sia vicino a quella posizione. Con tutta la differenza che non è possibile dissimulare, la nuova poesia ebraica non ha interrotto il legame vivo con il suo passato religioso e testuale. Di più: l’”egli”, il grande passato del nuovo “io” ebraico scopre, forse per la prima volta, di essere rinato proprio nella vita laica del linguaggio dell’ebraico contemporaneo.

Nella foto in alto: Ariel Hirschfeld