La pace in una regione instabile

Stato palestinese significa fine dell’occupazione, ma anche l'aeroporto di Tel Aviv a portata dei razzi.

Editoriale del Jerusalem Post

image_3081Le conseguenze, per il conflitto israelo-palestinese, dello sconvolgimento che sta investendo la regione sono oggetto di discussione. Comprensibilmente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha abbracciato opinione secondo cui, con i regimi fin qui stabili che improvvisamente si ritrovano in varia misura pericolanti, Israele deve essere particolarmente determinato nell’esigere ferree misure di sicurezza in qualsiasi futuro accordo di composizione con i suoi vicini.
Istituire uno stato palestinese a fianco di Israele avrebbe il pregio di porre fine al controllo di Israele sui palestinesi e di mettere al riparo il suo status di paese sia ebraico che democratico, due suoi valori cardinali. D’altra parte, tuttavia, significherebbe anche portare l’aeroporto internazionale Bden-Gurion entro la portata di un semplice lanciarazzi anti-aereo da spalla posizionato nel territorio sotto il controllo palestinese. Israele deve poter essere certo di consegnare il controllo a una dirigenza palestinese che sia al contempo votata alla riconciliazione ed effettivamente stabile: non ci possiamo permettere di ripetere il disastro della striscia di Gaza controllata da Hamas.
Ma a livello internazionale, gli sviluppi degli ultimi mesi vengono visti talvolta sotto una luce assai diversa. Il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, ad esempio, la settimana scorsa ha detto al corrispondente del Jerusalem Post Herb Keinon che è proprio questo il momento per audaci iniziative di pace da parte di Israele: “Ora trovo più urgente che mai cercare di andare incontro al versante palestinese delle cose. È difficile credere che sarà più facile fare un accordo di pace fra cinque anni che fra cinque mesi”. Ruprecht Polenz, presidente della commissione esteri del parlamento tedesco, spiegando al New York Times la decisione del suo paese di appoggiare la mozione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condanna degli insediamenti israeliani come “illegali”, ha detto che questo non significa che la Germania non voglia più tutelare la sicurezza di Israele. “Significa – ha detto Polenz – che il cancelliere Angela Merkel sta cercando di spiegare al governo israeliano che, con gli straordinari cambiamenti in atto in tutto il Medio Oriente, il tempo non gioca a suo favore per quanto riguarda la soluzione del conflitto con i palestinesi”. La scorsa settimana, il presidente Usa Barack Obama, incontrando alla Casa Bianca una cinquantina di rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche americane, ha detto che, pur comprendendo le preoccupazioni di Israele per la sicurezza, è tuttavia convinto che dei progressi in questo momento nei colloqui di pace coi palestinesi potrebbero attenuare l’isolamento internazionale dello stato ebraico. E infatti, non potendo ignorare la pressione internazionale, a quanto si dice Netanyahu sta formulando una nuova iniziativa di pace, i cui parametri devono ancora essere annunciati.
Purtroppo, però, nessuna equivalente pressione viene nemmeno lontanamente esercitata sulla dirigenza palestinese. Né l’Autorità Palestinese ha fatto alcun passo per facilitare la ripresa di colloqui sostanziali. È vero anzi il contrario. “Noi vogliamo che i paesi dell’Unione Europea riconoscano un governo di unità nazionale palestinese comprendente anche Hamas”, ha dichiarato lunedì scorso al Cairo il negoziatore palestinese Nabil Sha’ath. Anziché rimarcare alla propria gente la necessità di venire a patti con una pace possibile, e incoraggiare Hamas a riconoscere Israele, ripudiare il terrorismo e accettare i precedenti accordi di pace – le tre condizioni poste dalla comunità internazionale per la legittimazione di Hamas – l’Autorità Palestinese controllata da Fatah fa pressione sull’Unione Europea perché essa annacqui le sue richieste. Probabilmente è persuasa che in questo momento l’Unione Europea possa accettare più flessibilità circa il riconoscimento di Hamas nella convinzione di far avanzare il processo di pace. Inoltre, facilitare la legittimazione di Hamas e aprire la strada a un governo di unità nazionale palestinese accrescerebbe la calante popolarità di Fatah, dando soddisfazione alla richiesta della popolazione palestinese di porre fine alla spaccatura fra Gaza e Cisgiordania. Ma quella non sarebbe certo la dirigenza palestinese responsabile con cui Israele spera di poter firmare un accordo duraturo. Ed è assai inquietante il fatto che Hamas – la cui Carta costitutiva afferma che “le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni di pace e le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese sono in totalmente contrasto con le credenze del Movimento di Resistenza Islamico” – goda di tale popolarità fra i palestinesi.
È sbagliato e pericoloso che gli Stati Uniti, l’Unione Europea o il Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) si ostinino a fare pressione su Israele perché si affretti a fare l’accordo con una dirigenza palestinese che non ha fatto un bel niente per preparare la propria gente alla pace, e che ora preme per la legittimazione di un’organizzazione dichiaratamente terroristica. Piuttosto, l’Autorità Palestinese dovrebbe essere incoraggiata a offrire una sana alternativa rispetto a Hamas: un’alternativa che promuova coerentemente la riconciliazione con Israele e la libertà, i diritti umani, la democrazia per i palestinesi – aspirazioni per le quali è emersa in modo improvviso, e incoraggiante, una forte domanda in tutta la regione. E l’Autorità Palestinese dovrebbe tornare ad un tavolo di trattative per la pace dove vengano affrontate senza precondizioni le legittime preoccupazioni di sicurezza di Israele. Questo sì che aiuterebbe molto a creare il clima in cui poter raggiungere una pace duratura. L’accordo di cui abbiamo bisogno con i palestinesi, come dimostrano i recenti sviluppi nella regione, deve essere negoziato con una leadership stabile e votata alla pace, e che rispecchi anche la volontà della sua popolazione.

(Da: Jerusalem Post, 9.3.11)

Nell’immagine in alto: La posizione dell’aeroporto internazionale d’Israele rispetto a Tel Aviv, Cisgiordania e Gerusalemme